– “Voxi do mâ” è il titolo dell’album della band genovese che prende il nome da una parola araba che unisce la Liguria e la Sicilia
– «Prima abbiamo tradotto in genovese le canzoni in italiano di De André, adesso suoniamo brani di nostra composizione»
– Dieci canzoni che raccontano storie legate al territorio o aneddoti personali, intrise di memoria, di futuro, fra antico e moderno
– «È difficile fare concerti oltre i confini regionali. La gente preferisce ascoltare la musica in inglese, arabo o africano piuttosto che nei dialetti d’Italia»
In dialetto siciliano mandillä, termine derivato dall’arabo, indica il foulard portato fin dall’antichità dalle donne intorno alla testa, con un nodo sotto il collo e la frangia finale appoggiata sulle spalle. La stessa parola, nel dialetto ligure, partendo da un significato quasi uguale – fazzoletto – si estende a un altro concetto: ladruncolo. Perché l’idea era che nascondesse la refurtiva nel fazzoletto.
“Gente de Lûgan facce da mandillä”, canta Fabrizio De André in Crêuza de mä. Che in italiano si traduce: “Gente di Lugano facce da tagliaborse”.
Giuseppe Avanzino, Marco Raso, Pierpaolo Ghirelli, Laura Merione, Michele Marino, Marco Vaccarezza sono tutt’altro che “tagliaborse”. Chi è medico, chi dentista, chi direttore d’azienda, chi geologo, chi architetto. Eppure, si fanno chiamare Mandillä, nome attinto proprio dalla canzone di Faber. E dal canzoniere dell’indimenticato autore della Canzone di Marinella è cominciato il loro percorso musicale.
«Nella nostra prima fase portavamo in giro i brani in italiano di De André tradotti in dialetto genovese e arrangiati in stile folk. Siamo nati così», racconta Pierpaolo Ghirelli, direttore di un’azienda metalmeccanica, chitarrista del gruppo. «Poi abbiamo cominciato a suonare pezzi di nostra composizione e nel 2017 abbiamo fatto uscire il nostro primo disco di musica completamente originale, intitolato Ciassa Marengo 26, con storie legate a tradizioni popolari, al nostro territorio, all’immigrazione».
In seguito, oltre agli impegni personali di ciascuno, si è messo di mezzo anche il Covid. Così l’attività artistica del gruppo ha subìto un momento di pausa. Che, tuttavia, ha consentito a tutti i componenti di approfondire e sviluppare nuove idee che hanno portato a Voxi do mâ, album nel quale al folk si mescolano jazz, rock, pop, cabaret, teatro, canzone d’autore.
«Siamo tutti musicisti per hobby, ma ci siamo fatti una esperienza negli anni Novanta suonando diversi generi», tiene a sottolineare Ghirelli. «Il bassista Michele Marino viene dal jazz, io dal rock, il pianista e fisarmonicista Marco Raso, il più preparato di tutti noi dal punto di vista tecnico, ha fatto di tutto, dal jazz al rock, mentre il cantante Giuseppe Avanzino è proprio un cantautore, lui viene da Brassens, Jannacci, Gaber. E, comunque, in ogni lavoro ci mettiamo l’anima, curando in modo certosino gli arrangiamenti, ogni singola nota è studiata».
E Voxi do mâ sorprende per la precisione dei suoni, per la raffinatezza negli arrangiamenti, la cura nella registrazione, nella ricerca dei suoni, nell’intersecarsi fra musica e storia, folclore e tradizione, antico e nuovo. E si resta sbalorditi quando si arriva ai nove e oltre minuti del brano finale, che è quello che dà il titolo all’album: una composizione sperimentale dalla struttura jazz minimalista, avviata dal contrabbasso che poi si scambia il ruolo di protagonista con il piano in un crescendo carico di tensione ed emozioni. Un brano che esprime l’immensità del mare e della musica. E di quelle voci che caratterizzano una città e una regione che vive sul mare.
Le dieci canzoni dell’album si incastrano l’una nell’altra con grande omogeneità, con la precisione di un puzzle. Canzoni che raccontano storie legate al territorio o aneddoti personali, intrise di memoria, di futuro, spesso e volentieri delle difficoltà di comprendere quanto accade intorno a piccole e semplici esistenze (all’apparenza) tirate per la giacca dalla retorica dei massimi sistemi. E le raccontano, queste storie, con il tono della denuncia, come in Sciallin, che parla di un cantastorie valdese rinchiuso in galera da una mano cattiva. O con la cadenza da commedia come in A nessa, «scritta dal nostro cantante che fa il medico e fa riferimento a una lettera anonima che avevano ricevuto lui e i carabinieri, nella quale una “nessa”, che sarebbe nipote in genovese, veniva accusata di aver ucciso con il veleno la vecchia zia, che in realtà era deceduta in ospedale per morte naturale».
Storie che ricordano un tempo che fu, come in A pria, che è la pietra: «Una volta, quando una persona aveva dei debiti, il creditore arrivava nel suo terreno, lanciava una pietra e diceva: “Fin dove arriva la pietra il terreno diventa mio”». Una introduzione mediorientale e il recitativo in arabo di Eyal Lerner, fratello di Gad, aprono la balcanica Tappi de çeia, «che ricorda quando a Genova c’era il ghetto e gli ebrei erano costretti ad andare a messa. Però, per non sentire il prete, si mettevano i tappi di cera nelle orecchie. La gente li insultava, ma loro non sentivano nulla».
È un divertissement Santo Cristo, scritta dal batterista di Sestri Levante, che osserva la tradizionale processione del Santo Cristo dal punto di vista di Gesù: “Ora sono qui tra gente urlante. Mi danno del tu anche se non mi conoscono. Mi mandano baci e prima erano con l’amante. Si dimenticano che io vedo anche da lontano”.
I Mandillä vivono soprattutto di concerti. In Liguria sono popolarissimi, ma hanno difficoltà a superare i confini regionali. «Non è semplice uscire dal territorio per via del dialetto», è l’amara constatazione di Pierpaolo Ghirelli. «Anche se mi chiedo come si fa a sentire un gruppo che canta in inglese, africano, arabo, piuttosto che uno che canta in genovese o in calabrese o piemontese. Per dire che l’importante è la musica».
Eppure, sulla scia dell’album Crêuza de mä di De André la musica ligure ha avuto la possibilità di uscire dal suo territorio. Non si è creato un movimento come quello che, ad esempio, è nato attorno alla taranta e alla pizzica pugliese.
«È vero. Comunque, non siamo pochi a fare musica ligure. Da dieci anni ci incontriamo a un festival che si svolge ad Albenga e siamo tanti da tutta la regione. Alcuni riescono ad andare un po’ oltre i confini territoriali, ma è sempre difficile, perché è mancato quel passaggio che ha fatto della taranta un fenomeno nazionale. Anche perché qui non c’è una linea musicale unica come la pizzica. Noi cantiamo in genovese, ma c’è chi lo fa con il reggae, chi fa cantautorato puro. Manca una impronta musicale riconoscibile».
In compenso avete avuto la scuola genovese della canzone d’autore italiana.
«Eh sì, quella c’è ed è ancora viva».
E in quel grande mare i Mandillä vorrebbero tuffarsi, portando Voxi do mâ al premio Tenco.