Storia

«Rinasco dalle follie con Ron Wood»

– Il musicista taorminese Sandro Di Bernardo racconta l’anno e mezzo trascorso con il chitarrista dei Rolling Stones: l’incontro a Mazzarò, il concerto, le promesse, le speranze, gli eccessi, la delusione
 – Le altre collaborazioni importanti, quelle con Franco Battiato e Jim Kerr, poi la fuga dalla musica. La passione per la cucina lo trasforma in chef e lo porta lontano dalla Sicilia
– Il rientro in patria, il riaccendersi della vecchia fiamma e adesso i singoli che anticipano il primo album con il suo nome. «Un disco suonato tutto da me, con echi anni Sessanta e Settanta»

Punk della prima ora nella Sicilia degli anni Ottanta. Nel decennio successivo alla corte di Rolling Stones, Franco Battiato e Jim Kerr dei Simple Minds. Si scopre chef stellato all’inizio del nuovo secolo, per poi tornare alle origini e sposare il rock con il dialetto. Pekora Nhera nell’album “americano” Moon prima di mostrarsi finalmente come Sandro Di Bernardo nel 2024 e unire i punti della sua carriera in un album che lo rappresenti. Una storia cominciata nel 1987, con i Kristal Dream, una punk rock band.

«La mia generazione è cresciuta con i Cure, i Clash, ma anche i Duran Duran», racconta l’ex ragazzo della Taormina rock. «Noi ascoltavamo Led Zeppelin e Pink Floyd, ma i Police piuttosto che gli Smiths li avevamo nelle orecchie. E hanno formato il nostro Dna, che continuo a portarmi dietro: ancora oggi ho un gruppetto, i Bananas, un trio punk che uso ogni tanto per sfogare tutta l’energia repressa e con il quale ci divertiamo a fare brani dei Sex Pistols, dei Clash, degli U2».

Sandro Di Bernardo

Poi, nell’estate del 1993, il fatidico incontro con Ron Wood.

«In quei giorni era in vacanza a Taormina con la moglie Josephine e i figli. Un giorno, sulla spiaggia di Mazzarò, il batterista della band mi indica una persona e mi fa: “Guarda quello lì, sembra Rod Stewart con i capelli neri”. Lo osservo e gli faccio: “Non è Stewart, è il chitarrista dei Rolling Stones, non Keith Richards, quello scarso”. Andiamo a chiedergli l’autografo e poi torniamo al nostro posto continuando a spiarlo. Lui se ne accorge e si avvicina a noi: “Sto andando a farmi un drink, mia moglie non viene, mi fate compagnia?”. E, dopo sei gin tonic, capì che si sarebbe divertito di più a trascorrere la vacanza siciliana con noi che con la famiglia. Dall’autografo al gin tonic siamo finiti a suonare insieme».

Cominciano così quaranta giorni e notti di follie, che passano da una cena al ristorante Il Duomo a un concerto al Marabù di Giardini Naxos con Ronnie Wood, «che una sera fu cacciato dalla discoteca La Giara perché si presentò in pantaloncini corti, ma il giorno dopo seguirono le scuse e un tavolo imperiale». Insieme, Sandro Di Bernardo, i compagni di band e la “pietra rotolante” scorrazzano per l’Isola: l’Etna, Siracusa, Noto. Stringendo un’amicizia che rimane anche dopo il ritorno del chitarrista in patria. 

«Noi lo abbiamo raggiunto in Inghilterra, dove lui ci ha prodotto l’EP Sex money and success, con sei canzoni, uscito con il nome dei Kristal Dream per una label americana», racconta Di Bernardo, 56 anni il prossimo agosto. «Fu Ron a pagare tutte le spese».

Sandro Di Bernardo nel 1993 in concerto con Ron Wood al Marabù di Giardini Naxos

«Sono stati dieci anni vissuti velocissimi», che l’artista taorminese ricorda con nostalgia ma anche con una punta di amarezza. «Noi in quel momento avevamo discrete possibilità di ritagliarci il nostro piccolo spazio sulla scena musicale nazionale. Portavamo i nostri demo a Pippo Baudo, che era amico di mio padre e ci dava consigli. “Non bevete, cantate in italiano”, ci diceva. Nel 1992 voleva portare un nostro pezzo, Perugia, al Festival di Sanremo. Eravamo in contatto con Francesco Virlinzi, che ci teneva in grande considerazione, e con la Polydor. Allora c’era molta attenzione sul palcoscenico siciliano. Qualcosa, penso, l’avremmo strappata sul territorio nazionale. Poi abbiamo incontrato Ron Wood. E, con il senno del poi, è stata la nostra fine. Lui dal pomeriggio alla sera ci ha detto: “Domani parlo con Rod Stewart, nel video ci metto Eric Clapton”. Ed a me fece balenare il sogno di sostituire al basso Bill Wyman che aveva lasciato gli Stones. Lo propose al gruppo: “Sapete questo ragazzo suona con me in Sicilia, è molto bravo”. Ogni giorno ci tempestava di fax. “Non vi preoccupate, ci vediamo nel New Mexico perché forse ci farete da supporter nel tour”. Un anno e mezzo di promesse che non si sono avverate e abbiamo imparato a nostre spese che quando si cade da un edificio di due piani ti rompi una gamba, ma se precipiti da un grattacielo è finita. Io ho visto il mio fratello chitarrista morire due anni fa per gli eccessi di quegli anni, per tutto l’alcol che ha bevuto fino a fargli scoppiare il fegato». 

Anni veloci, travolgenti, selvaggi, pieni di eccessi. «Devi pensare che avevamo appuntamento con Ron a mezzogiorno alla piscina dell’albergo e lo trovavamo che si era già scolato una cassa di Colomba Platino. Si partiva alla volta di Siracusa e ad ogni sosta c’erano una birra Messina e un amaro Averna. Noi eravamo poco più che ventenni, lui aveva 47 anni. Sua moglie era molto infuriata con noi, perché Ron trascorreva più tempo con noi che con la famiglia».

Jim Kerr, Franco Battiato e Sandro Di Bernardo a Milo negli anni Novanta

Nel 1995 Franco Battiato ti chiama per la registrazione dell’album L’ombrello e la macchina da cucire.

«Il mio nome cominciava a girare per via del concerto con Ron Wood. Franco, con il quale ci conoscevamo, mi volle coinvolgere nel progetto. Una bella esperienza. Negli stessi anni ho collaborato con Jim Kerr, che non suona alcun strumento e aveva bisogno di un chitarrista per applicare alcune sue idee. Appena ha saputo che ero amico di Franco, ha fatto pressione perché gli organizzassi un incontro. Per lui Battiato era come la Madonna di Lourdes. Avvenne in occasione di un pranzo a Milo. Da quell’incontro nacque il duetto Running against the grain, finito nell’album Ferro battuto di Battiato del 2001».

Poi, dopo un Festivalbar con Valeria Rossi, quella di “Dammi tre parole: sole, cuore e amore”, e una serie di brani per i Ti.Pi.Cal. di Daniele Tignino, il blackout. Sandro Di Bernardo avverte la necessità di staccare la spina. «Non riuscivo più a prendere la chitarra», ricorda. «Erano stati anni logoranti, soprattutto per la delusione per tutto quello che doveva essere e non è stato con Ron Wood». 

Sandro cambia vita. Attacca al chiodo la chitarra e comincia ad armeggiare tra fornelli e pentole. Diventa chef e si trasferisce ai Caraibi. 

«Io avevo cominciato per passione, perché mi piaceva cucinare. Avevo preso il diploma da sommelier, erano i primi anni di Gambero Rosso. Vengo ingaggiato da una compagnia di Dubai e vado a lavorare per tre anni a Saint Martin, nelle Antille olandesi. Poi ho avuto un ristorante, ho cucinato per il Dalai Lama nel 2016 quando venne a Taormina. È stata una parentesi molto bella».

Durante la ricerca della migliore pasta con la salsa, «come quella che faceva mia nonna», nel 2015, all’improvviso, si riaccende la passione per la musica. Il rocker della prima ora, l’englishman in Taormina, scopre le origini, rivaluta i consigli di Baudo, e canta in dialetto. Esce Sudditi e Rose, un album “siciliano” nei testi e nei temi con uno spirito ancora punk.

«Alle origini, oltre ai Denovo c’erano i Kunsertu. Con i Kristal Dream avevamo sfiorato quel mondo con una sorta di sicil-inglese. Dopo essere scomparso per quindici anni, avevo bisogno di essere capito immediatamente ed ho tirato fuori questo disco, che parla dell’atteggiamento che l’Isola ha nei nostri confronti e che noi abbiamo nei suoi. I “sudditi” siamo noi e le “rose” è la bellezza nella quale l’Onnipotente ci ha “costretto” a nascere. È difficile, molto difficile, essere siciliani».

Dalla svolta siciliana passano altri sette anni, trascorsi suonando nei club, nelle piazze o negli hotel di Taormina, prima di ritornare in sala e uscire come Pekora Nhera con l’album Moon

«Tutti abbiamo un momento nella vita in cui ci sentiamo una pecora nera. Poi c’era il fatto che nessuno mi chiama con il mio nome, tranne mio padre. Mio figlio mi chiama “Boss”, gli amici “Ale”. Era un periodo di disorientamento, che ha coinciso anche con la pandemia. Insomma, una stupidata che Giuseppe Strazzeri di Mhodì, che distribuisce l’album, si è affrettato a eliminare».

Così ecco finalmente Sandro Di Bernardo. Il primo singolo, Love and Gold, ad annunciarlo e altri quattro in arrivo. «Con Giuseppe Strazzeri abbiamo scelto la politica dei singoli», spiega. «L’album ancora non ha un nome. O, meglio, ne ha due in ballottaggio. È un disco tutto suonato da me, tranne la batteria e il basso in un paio di brani affidati al mio produttore Ottavio Leo. Rispetto a Moon, la scrittura è un po’ diversa: questo è più solare, meno notturno, più americaneggiante. Ci sono riferimenti ai miei modelli: John Lennon, Paul McCartney, Bob Dylan, Simon & Garfunkel». 

Echi dei Beatles, stile anni Settanta e Ottanta, in alcuni momenti sonorità easy listening alla Steely Dan: un disco pop, fondamentalmente. Semplice, leggero, orecchiabile, ricco di melodie avvolgenti e lussureggianti. Un disco realizzato in piena libertà, senza lasciarsi influenzare dal mercato, né con l’intento di rastrellare like o stream. 

Dopo Love and Gold, il 10 aprile uscirà il secondo singolo Someone, mentre negli scorsi giorni nei luoghi più iconici di New York è stato girato il video di Move on, un altro dei brani del nuovo album, «il pezzo più newyorkese, ha un appeal anni Sessanta, riferimenti ai telefilm polizieschi, a Marvin Gaye nell’uso degli archi, ed è quello più dinamico, più adatto alle immagini».

In agosto Sandro Di Bernardo ha già un carnet pieno di appuntamenti con una mezza dozzina di concerti a New York, a conferma dell’appeal internazionale del suo suono. «All’estero c’è anche più curiosità nei confronti delle nuove proposte», sottolinea. «È più facile suonare nella Grande Mela o a Londra piuttosto che in Italia. Oggi il pubblico non è più quello di quaranta o trent’anni fa. La gente vive su TikTok anche quando stai suonando. Fino a qualche anno fa ho fatto serate per due stagioni sulla terrazza dell’Hotel Timeo, dove Sting è di casa e spesso capita che si avvicini al pianoforte per scambiare qualche battuta e poi prendere il microfono per accennare Fragile. La gente neanche se ne accorge, continua a stare con lo sguardo fissato sullo smartphone. E non soltanto le nuove generazioni. I talent ed i social hanno rovinato la scena musicale».

Ma, alla fine, mi spieghi perché s’interruppe la favola con Ron Wood?

«Quando i Rolling Stones andarono in tour con il disco Voodoo Lounge, i contatti divennero più difficoltosi. Lui ogni giorno cambiava albergo e “nickname” per non farsi rintracciare dai fan. Una volta ci telefonò: “Ron?”, rispondemmo. “No, I’m Mick”, puoi figurare il colpo al cuore. Stavamo per svenire. Era davvero Mick Jagger… Ci faceva spesso scherzi simili… Ma la storia non finì per un motivo legato alla musica. La causa è legata a una donna».

La moglie Josephine?

«Ho pronto nel cassetto un libricino che racconta quei giorni…».

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