Storia

L’Islam hard rock di Mdou Moctar

– La band guidata dal chitarrista tuareg conquista l’America con un metal pesante cantato nella sua lingua 
– «Quando vogliamo inviare il messaggio alla politica, abbiamo bisogno di qualcosa di molto forte, veloce e pazzo: è lo stesso di quando senti l’ambulanza»
– «Il golpe in Niger è stato folle. Il cibo è costoso e non ci sono posti di lavoro. Ma allo stesso tempo la gente è molto felice che la Francia se ne vada»

Mahamadou Souleymane, meglio noto con il nome d’arte Mdou Moctar, fa parte del popolo nomade tuareg che costituisce una piccola ma significativa parte della popolazione del Niger. È emerso come uno dei chitarristi più eccitanti del mondo negli ultimi anni, suonando una fusione di musica tuareg contemporanea e rock’n’roll pesante. Non è il primo musicista tuareg a prendere una chitarra elettrica, né è il primo chitarrista tuareg a trovare ascoltatori al di fuori della regione del Sahara, ma potrebbe essere il primo che può rivendicare Eddie Van Halen come una grande influenza.

La storia di Moctar è materia di leggenda. Sfidando una disperata mancanza di risorse e una famiglia strettamente religiosa che vedeva la musica come una scelta inadatta, costruì il suo primo strumento usando i cavi dei freni della bicicletta come corde. Chiunque abbia lottato come chitarrista principiante con la rugosità delle corde standard può immaginare quanto deve essere stato difficile suonare con quelle dei freni. Senza nessuno che gli insegnasse, o alcuna registrazione da studiare e imitare, ha imparato guardando gli artisti dal vivo locali e tornando a casa per esercitarsi. «Quando ascolto, tengo quel suono nella mia memoria e, a poco a poco, cerco di imitarlo», dice.

Ha cominciato a suonare ai matrimoni, cantando in tamasheq, la lingua tuareg. Il suo primo album, Anar, è stato registrato in Nigeria nel 2008. Il suo stile era definito come assouf, una parola difficile da tradurre in italiano, ma che evoca il blues del deserto. Anar è diventato un successo in tutto il continente grazie alle persone che se lo inviavano da un telefono all’altro usando il bluetooth.

Oggi Moctar vive e suona negli Stati Uniti. Qui ha trovato la libertà e il paese dei balocchi nel Guitar Center di New York, dove trascorre giornate intere a giocare con le chitarre di ogni tipo. Negli uffici della Matador Records ha invece incontrato i musicisti diventati poi suoi compagni di band. Erano tutti lì per un provino per l’etichetta indie che ha scommesso, con apparente successo finora, sugli inni di chitarra di Moctar pubblicando l’album Afrique Victime del 2022, arrivato al numero 8 posto nella lista dei migliori album di Pitchfork di quell’anno. 

Il prossimo 3 maggio uscirà il nuovo lavoro della band, Funeral for Justice. Presenta una versione ancora più grande e coraggiosa di ciò che i fan si aspettano da Mdou Moctar. La maggior parte delle sue canzoni inizia con più forza e slancio di quanto qualsiasi rocker occidentale possa immaginare.

I testi di Moctar, consegnati in tamasheq, la lingua tuareg, spesso affrontano la difficile situazione del suo popolo e degli africani sahariani più in generale. Su Oh France e Funeral for Justice si scaglia contro il Paese che ha colonizzato violentemente il Niger alla fine del XIX secolo e vi ha mantenuto una presenza militare fino all’anno scorso, più di mezzo secolo dopo l’indipendenza ufficiale del Niger nel 1960. Imouhar riguarda la conservazione del tamasheq, che è la lingua ufficiale nel vicino Mali, ma è diminuita in Niger sotto il dominio coloniale. Il suono furioso della band di Moctar vuole riflettere l’urgenza dell’argomento. «Quando vogliamo inviare il messaggio alla politica, abbiamo bisogno di qualcosa di molto pesante, forte, veloce e pazzo: ti senti come se fosse un’emergenza», ha detto. «È lo stesso di quando senti l’ambulanza», e imita il lamento di una sirena con la bocca. «La chitarra deve fare lo stesso suono folle».

La svolta più recente nella politica nigeriana è coincisa con un colpo di Stato militare nel 2023 che ha sconvolto la sua democrazia e ha cacciato la presenza postcoloniale francese. «Il colpo di Stato è stato folle. Il cibo è costoso e non ci sono posti di lavoro e non abbiamo una buona sicurezza», spiega. «Ma allo stesso tempo la gente è molto felice che la Francia se ne vada».

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