Storia

Cinquant’anni fa iniziava la rivoluzione hip hop

La più importante forma d’arte degli afroamericani del nostro tempo ha cominciato come – e in una certa misura rimane – un prodotto della strada, accessibile a chiunque, anche se è cresciuto fino a diventare un’industria globale che genera miliardi. Nacque come un movimento di protesta, oggi si è diffuso ovunque, perfino nell’opera lirica

L’11 agosto 1973 una giovane donna del Bronx organizzò una festa di ritorno a scuola nel centro ricreativo del suo complesso di appartamenti. Per non spendere troppo, chiese a suo fratello di 18 anni, noto per il suo sistema audio professionale, di essere il DJ. Quella donna era Cindy Campbell e suo fratello era Clive, meglio conosciuto dagli appassionati di hip hop come DJ Kool Herc.

La musica nera americana – jazz, blues, rock’n’roll, rhythm & blues, funk – ha preceduto di molto quello che sarebbe diventato noto come hip hop. Artisti come Kid Capri e Kurtis Blow elencano influenze che vanno dai Jubalaires, un gruppo gospel attivo per la prima volta negli anni Trenta, al comico Pigmeat Markham ed al musicista soul Jimmy Castor. Buckshot, del gruppo Black Moon, fa eco ai tanti che considerano James Brown ed i Parliament Funkadelic di George Clinton la pietra miliare.

Eppure, è quello che fece Kool Herc a quella festa del 1973 che gli storici considerano l’invenzione dell’hip-hop. Sancita con atto fondante perfino dal Senato Americano nel 2021. Kool suonò i break beat – frammenti di canzoni più funky – in un loop continuo su due giradischi, quindi la musica, e quindi la danza, non si è mai fermata. Da quel momento, i DJ sono diventati i protagonisti di una cultura della festa che si tiene principalmente nei parchi e nei nightclub di New York City.

L’ufficializzazione della “data di nascita”, tuttavia, non sfugge ai rischi di arbitrarietà. Come si può stabilire il primo passo di un movimento nato nelle strade? Agli albori dell’hip-hop, collegare i giradischi a un lampione e trasformare un campo da basket all’aperto in una discoteca poteva sembrare un fatto normale, un semplice invito alla festa. Una visione più attenta ha rivelato la verità: l’hip-hop è stata una risposta all’ingiustizia sociale ed economica nei quartieri trascurati, una vetrina di gioia, ingegnosità e innovazione nonostante la mancanza di ricchezza e risorse. La musica emanata dall’attrezzatura del dj potrebbe dire ai partecipanti di “muovere i piedi” e, nel set successivo, dire loro di “combattere il potere”. L’hip hop è stato parte integrante dei movimenti per la giustizia sociale e razziale. È stato anche posto sotto esame dalle forze dell’ordine e dai gruppi politici a causa della loro convinzione che l’hip hop e i suoi artisti incoraggiassero la criminalità violenta.

Il laboratorio di questa rivoluzione è stato il Bronx, che negli anni Settanta era una delle zone urbane più pericolose e degradate del mondo, l’immagine simbolo, usatissima dal cinema e dalla serie tv, della metropoli distopica. E fin dalla sua nascita, presentatori, beatboxing, deejay e graffiti hanno fatto molto di più che intrattenere legioni di fan in tutto il mondo e generare miliardi di dollari in commercio: i quattro elementi dell’hip hop portano lo spirito di resistenza e la libera espressione come conforto per gli afflitti e l’afflizione a chi sta troppo comodo.

Man mano che la musica hip hop e rap diventavano una forza nella cultura americana, i loro pionieri le usavano come mezzo per parlare alle loro realtà. Nel 1982, nella canzone The Message, Grandmaster Flash and the Furious Five denunciavano la povertà assoluta e l’abbandono che sembravano particolarmente concentrati nelle comunità nere. Un decennio dopo, Tupac Shakur si sarebbe scagliato contro la brutalità della polizia nella canzone Changes. E nel 2019 Young Thug, il cui nome legale è Jeffrey Williams, ha co-scritto il successo di Childish Gambino This is America, che è un commento sulla violenza e il razzismo sistemico negli Stati Uniti. La canzone ha fatto la storia perché è stata la prima traccia hip hop a vincere il Grammy come “canzone dell’anno”, ed è stata usata da artisti globali per parlare di corruzione e ingiustizia in Nigeria, Malesia e Australia. Nel 2020 il rap è stata la colonna sonora delle proteste mondiali per l’omicidio di Floyd da parte della polizia a Minneapolis.

L’influenza dell’hip hop sulla protesta, la resistenza e il dissenso politico ha contagiato il mondo. Dalla primavera araba e la lotta per la libertà palestinese al femminismo e alle lotte di classe, la musica rap è un mezzo popolare per inviti all’azione. Il leader dei diritti civili reverendo Al Sharpton, che aveva 18 anni quando l’hip-hop è davvero decollato dalla sua nativa New York, ha detto che la musica rap ha alimentato il movimento che ha plasmato gran parte della sua vita pubblica. All’età di 68 anni, crede che la cultura hip-hop abbia preparato il terreno per l’elezione del primo presidente nero americano nel 2008. Ed ha aggiunto: «L’hip-hop ci ha tolto le catene e ha detto: “No, lo diremo a modo nostro, comunque”… Era quella libertà. Era quel tipo di espressione cruda, non annacquata. Abbiamo capito quella rabbia e rabbia, anche se l’abbiamo espressa in modi diversi».

Il rap ebbe lo stesso ruolo che ha avuto il jazz negli anni Quaranta e Cinquanta per gli afroamericani. Musica di rivolta, espressione di una identità di razza, di una cultura diversa da quella bianca. Tant’è che Max Roach, batterista che partecipò alla rivoluzione bebop, mi confessò che se fosse nato oggi «anch’io farei rap: è la musica più recente e più nuova, ed è diventata espressione delle generazioni nere più giovani».

La storia insegna che l’hip hop è una cultura che mette assieme diversi elementi: i graffiti, la break dance, il rap ed i dj. È un intero universo, un genere musicale, certo, ma anche un atteggiamento, una lingua, un’impresa, una cultura. Come racchiudere mezzo secolo di hip-hop? Troppe stelle, troppe canzoni, troppi luoghi, troppi scandali. 

Attraverso i graffiti, che coprirono i muri dei palazzi e i vagoni della metropolitana, le nuove generazioni di emarginati, utilizzando le bombolette spray, esprimevano la loro identità sfidando le autorità utilizzando codici segreti che hanno dato il via a quella Street Art che ha avuto in Keith Haring e Basquiat le star riconosciute dal mainstream. 

Il primo passo verso l’esplosione commerciale dell’hip hop risale al 1978 ed è Rapper’s Delight della Sugarhill Gang che sovrappose una rilettura di un testo dei Cold Crush Brothers a una base tratta da Good Times degli Chic: quattordici minuti di groove e musica che finendo in classifica sancì di fatto il passaggio del nuovo genere da fenomeno di controcultura a genere mainstream, annunciando che il rap era uscito dai “block parties” ed era lanciato alla conquista del mondo. Una rivoluzione in piena regola sul piano della musica, dell’estetica, dei contenuti, del look che per la prima volta vedeva la cultura black diventare dominante con un’aggressività e un’attitudine molto poco borghesi.

«Ricordo che negli anni Ottanta tutti pensavano che l’hip hop fosse una moda passeggera e ritenevano che si sarebbe estinto», commenta Apollo Brown, produttore di Detroit, al Washington Post. «Era come: “Oh, lascia che i nostri figli si divertano un po’ e poi sarà tutto finito”. Invece, oggi l’hip hop governa il mondo. È in ogni pubblicità che vedi. È in ogni film… è su ogni cartellone pubblicitario».

L’hip hop è diventato un’industria miliardaria e si è evoluto in mille generi e sottogeneri che vanno dalle cose più commerciali a quelle più sperimentali, ha visto affermarsi un nuovo tipo di divismo e di star imprenditori, ha inevitabilmente contaminato, e a sua volta è stato contaminato da, quasi tutti i generi musicali esistenti. Un fenomeno unico che ha travalicato i confini musicali per diventare il codice identificativo degli anni a cavallo tra il Novecento e il presente.

Qualche mese fa, negli Stati Uniti, gli esperti si sono resi conto che nessun album rap era arrivato in cima alla Billboard 200 durante la prima metà del 2023, un cambiamento apparentemente drammatico rispetto al 2022, quando gli LP di sei rapper avevano raggiunto il numero 1 all’inizio dell’estate. La verità è che quasi tutti gli album in cima alla classifica hanno l’hip hop nei loro solchi, sia esso SOS di SZA, in cui il cantante R&B sputa rime con arguzia e destrezza, o One Thing at a Time di Morgan Wallen, un disco country intriso di stordenti ritmi trap.

Cercare l’hip hop nelle classifiche di questi tempi – cercarlo nei film, nella moda, nelle arti visive – significa trovarlo praticamente ovunque. Perfino nell’opera lirica. La più importante forma d’arte degli afroamericani del nostro tempo, l’hip hop è iniziato come – e in una certa misura rimane – un prodotto della strada, accessibile a chiunque, anche se è cresciuto fino a diventare un’industria globale che genera miliardi.

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