Disco

Carmen Consoli – “Eva contro Eva”

Ogni domenica, segnalisonori dà uno sguardo approfondito a un album significativo del passato. Oggi rivisitiamo l’album della svolta della “cantantessa”, quando da rockeuse si trasforma in cuntastorie. Un disco uscito nel 2006 e di grande attualità ancora oggi

Agli inizi del maggio 2006, per presentare il disco Eva contro Eva, Carmen Consoli fece arrampicare la stampa ed i tg nazionali lungo i tornanti che salgono a Puntalazzo, alle pendici dell’Etna fra Sant’Alfio e Mascali. Qui, nella quiete della campagna etnea, fra alberi di fichi e ciliegi («a cirasa di don Masino»), fra pistacchio, vigneti, pietre laviche e odore di salsedine, la “cantantessa” era andata alla scoperta delle sue radici e di strumenti delle tradizioni popolari, come quei “friscaletti” che compaiono nel nuovo cd: «Strumenti ormai in disuso, suonati dai pastori che spesso ostruiscono le strade dell’Etna con le loro greggi. E poi le pive, strumenti a fiato, tamburi ed i pifferini che ci ha costruito Alfio “Cioccolatto”».

Fra questi odori, sapori e suoni – gli stessi del disco – donna Carmen, abbracciata alla sua chitarra-coperta alla Linus, insieme con gli amici della band, si rifugia per sfuggire ai riflettori, agli «sguardi famelici» della gente, agli occhi indiscreti dei Grandi Fratelli, per evitare di essere trascinata nel «girone dei dannati», quello in cui sono caduti tutte le figlie e tutti i figli di Eva, i signor Tentenna, le Maria Catena, la ragazza de La dolce attesa: i personaggi ai quali dà vita in Eva contro Eva, l’album pubblicato tre anni e mezzo dopo L’eccezione.

Un lungo periodo d’assenza dagli studi di registrazione, trascorso a scrutare il mondo attraverso i libri, i viaggi, i dischi e gli occhi di una ex “bambina impertinente”; ad assorbire umori, sensazioni, nuovi stimoli e urgenze, per una nuova Carmen. Che è la stessa di sempre, ironica e antidiva per eccellenza, coraggiosa e appassionata, artista senza mezze misure, che si ama o si odia, ma più matura, più posata e riflessiva, meno rockeuse e più cantastorie folk, più vicina a Rosa Balestrieri (citata in La dolce attesa) che a Janis Joplin. Il fuoco rock dell’Etna non forgia più le sue canzoni, ma riscalda come un camino la sua chitarra acustica mentre racconta in musiche storie “rubate” al padre. «Volevo raccontare delle storie e ho detto a mio padre: “Tu m’ai a cuntare storie di paese”», spiegava.

Storie di piccola provincia, «che si estende dal Simeto al Tamigi», raccontate con toni grotteschi alla Fabrizio De André o alla Pedro Almodovar. Storie scritte al femminile, «ma che parlano all’intera umanità», sottolinea. «L’essere umano è un piccolo specchio che riflette suo malgrado ciò che gli sta intorno. Le mie storie parlano di quello che il mio specchio assorbe, in positivo e in negativo».

Una galleria di ritratti di perdenti, di vittime. Vittime del tradimento, del peccato originario, della sofferenza per colpa di Eva. Della maldicenza e della calunnia, come Maria Catena, struggente e straordinaria, una sorta di Bocca di rosa del Duemila. Perseguitati dalle pressioni sociali, che portano alla gravidanza isterica «la ragazza che ha ormai superato quella che viene considerata l’età feconda, dai 18 ai 28 anni». Ossessionati dalla competizione sociale, che fa dimenticare la moglie ed il cane al Signor Tentenna, abbagliato dalle sue ambizioni, che fa impoverire gli italiani con «i mutui per avere ciò di cui non ci si può permettere». Schiavi della bramosia del potere che spinge Piccolo Cesare, ingordo e atroce imperatore, a comprare da Dio il sonno dei giusti, con un riferimento a Berlusconi: «Altri leader che, al contrario, si credono unti dal Signore, dormono invece benissimo». 

Vittime del sistema, dal quale scappano Romeo e Giulietta per cercare la pace Sulle rive di Morfeo. Del lasciarsi andare senza decoro su Il Pendio dell’abbandono, cantato e “cuntato” fra gli echi slavi e gitani della musica di Goran Bregovic (richiami world che tornano in Madre Terra con la voce e le parole di Angelique Kidjo). Dell’attesa e “della Preghiera in gola” per un figlio disperso nella Seconda guerra mondiale.

Storia amare che soltanto nel brano finale si stemperano in un sorriso. Virtuale, però, come l’Odissea in apnea verso Atlantide, «la città utopica, il luogo dell’anima: una bellezza che ama nascondersi, perché come la vedo io per raggiungere il vero delle cose ci vuole fatica», spiega. «Verso i miei personaggi c’è il dolore della delusione e c’è il disprezzo, ma lascio sempre uno spiraglio. Vorrei essere cattiva con loro, ma spero che possano cambiare».

In sottofondo c’è la rabbia verso una società in cui sembra avverarsi la profezia di Orwell in 1984, «in cui ci si abitua a non pensare, anzi, il pensiero diventa crimine. Cellulite e corna ci hanno accecato», commenta. «Il gossip domina sui giornali e nelle tv, e non sappiamo nulla di ciò che accade nel resto del mondo. Siamo concentrati sul lurido, nell’indagare sulla vita privata degli altri. Viviamo in un’Italietta appiattita sulla Lecciso, c’è qualcosa di malsano. E poi la spettacolarizzazione del dolore… non ce la faccio più. La politica sembra un derby, non si parla dell’Italia, ma del Milan e dell’Inter, i politici litigano come gallinelle… Sogno un Paese più unito, più attento ai contenuti, alla cultura».

Era il maggio 2006, sembra oggi.

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