Disco

Clash – “London Calling”

Ogni domenica, segnalisonori dà uno sguardo approfondito a un album significativo del passato. Oggi rivisitiamo una pietra miliare del 1979, l’album dell’ultima band che ha tentato di dare una visione diversa della realtà usando il rock’n’roll

Anche da qualche decennio non sembra accadere, nella sua storia, ormai giunta all’alba dei settanta anni, il rock’n’roll si è saputo rinnovare, inventando di volta in volta artisti capaci di trarre energia dai fermenti sociali. Durante gli anni Sessanta, Bob Dylan, i Beatles e i Rolling Stones si misero addosso il mantello lasciato libero da Elvis Presley, cogliendo le tensioni emergenti dell’universo giovanile, mentre, a metà della decade seguente, il movimento reggae, esemplificato nella figura di Bob Marley, riportò il rock sul piano della lettura sociale, dopo che i grandi ricordi culturali e politici della grande nazione underground si erano dispersi o erano stati abbandonati nel dopo Woodstock.

Allo stesso modo, la crisi dell’economia inglese, alla fine degli anni Settanta, con la conseguente mancanza di posti di lavoro e di un futuro decente, produsse musicalmente il punk, movimento che in alcuni casi seppe andare al di là di un semplice rifiuto in termini estetici, recuperando quei connotati di classe e quello spirito antagonista che erano insiti nelle origini del rock’n’roll.

Più di chiunque altro, Sex Pistols compresi, i Clash assorbirono la rabbia e le frustrazioni della gioventù proletaria inglese, offrendo una motivazione al rifiuto e alla trasgressione ed estendendo in un contesto di rock politico il diffuso smarrimento giovanile per un mondo senza futuro, attanagliato dall’oppressione e dalla violenza. La loro rilevanza non fu, quindi, confinata al Regno Unito, ma raggiunse gli Stati Uniti, la Francia, l’Italia e altri Paesi del mondo occidentale, e le loro canzoni, abbracciando il reggae, il Terzo Mondo, la ribellione bianca e la guerriglia sandinista, seppero essere qualcosa di più dei tre minuti di rock’n’roll.

La leggenda comincia nella primavera del 1967, quando in un piccolo squat londinese vicino a Sheperds, Bush Green, Mick Jones e Paul Simonon, compagni di scuola e membri dei London SS, una post-glam band con molti vizi e poche virtù, incontrarono Joe Strummer, frontman dei The 101ers. Nell’agosto di dieci anni dopo, i tre, con l’aggiunta momentanea del chitarrista Keith Levine e del batterista Terry Chimes, recuperarono un vecchio magazzino in Camden Town, dove cominciano a fare le prove del futuro “scontro”. L’8 aprile 1977 esce l’album d’esordio, trascinato dal singolo White riot/1977. Più che un debutto, è una dichiarazione di guerra, il manifesto del “partito combattente punk”. Joe Strummer incita alla “rivolta bianca” creando una tesissima situazione da scontro di piazza, rotta solo da una sinistra sirena della polizia. Il retro del singolo è ancora più iconoclasta: No Elvis, No Beatles or Rolling Stones, esplicito misconoscimento di un passato che sarà completamente riesumato al momento di London Calling.

«Se i Sex Pistols volevano scioccare con il vomito e le automutilazioni dal vivo, i Clash impressionano e stordiscono semplicemente per come suonano. La loro rabbia, la loro disperazione e violenza sono una condizione e non una prescrizione, come invece per Sid Vicious e Johnny Rotten», scrive Jack Cocks sul “Time” nel 1979.

London Calling esce nel dicembre dello stesso anno, spiazzando i vecchi fan e meravigliando il mondo intero. Il disco è una pietra miliare nella storia del rock. Sebbene i Clash, a differenza degli storici gruppi inglesi dei Sixties, non abbiano avuto come riferimenti canonici e lessicali il blues, il rock’n’roll, il r&b, coniando, per questioni generazionali oltre che di immagine, un’estetica musicale avulsa dalle lezioni del passato e dalla “classicità” del rock, con London Calling si assiste a una revisione del loro assetto musicale, in nome di un tragitto a ritroso che lega Presley con il soul, gli Stones al punk, lo ska con il rockabilly, il funk con il reggae e forme più “industrializzate” della musica centroamericana.

Il nuovo corso è esplicito fin dalla copertina che, nei colori e nell’impostazione grafica, è simile a quella del primo album di Elvis Presley. E cambia anche l’immaginario, nel quale figurano scene di Revolution RockSpanish Bombs e The Guns of Brixton, include Montgomery Clift, una Brand New Cadillac, un Jimmy JazzDeath for Glory, Stagger Lee, e l’avventura soul di Train in Vain, la canzone, il cui titolo omesso in copertina, basta a decifrare la “filosofia” del disco. In un tourbillon di stacchi, ritmi a levare, rincorse chitarristiche, la ribellione dei primi dischi non sembra “persa in un supermercato” americano, solo che sul viso dei quattro “cavalieri dell’apocalisse punk” è spuntato il sorriso. 

Buona parte della stampa britannica attaccò London Calling, accusandolo di “americanismo” e autocelebrazione. Il disco diventerà in breve tempo un best seller consegnando, insieme poi a Sandinista, i Clash alla storia come l’ultima band che ha tentato di dare una visione diversa della realtà usando il rock’n’roll.

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