Interviste

Cesare Basile, l’urgenza di raccontare

– Il cantautore il prossimo 3 maggio pubblica l’album “Saracena”, dalla cacciata degli arabi dalla Sicilia per arrivare alla tragedia della Striscia di Gaza
– «Canto la “spartenza”, che è la separazione violenta da una terra, da una famiglia, da una donna. Quella che subiscono i palestinesi, i rifugiati, i migranti»
– «Come musicista ho sentito la necessità di prendere posizione, perché ritengo che tutti i musicisti debbano occuparsi del proprio tempo»
– Un album crudo e duro, anche nei suoni, creati con strumenti artigianali, gran parte dei quali autocostruiti, e suonato quasi in solitaria

Cesare Basile sembra Neil Young in versione siciliana. Un lupo solitario. In salopette jeans da farmer, ciuffi di capelli bianchi che escono da un cappellino da baseball, ha scelto di stare nella campagna di Misterbianco, a Santa Maria degli Ammalati, «dove una volta sorgeva il nucleo storico del paese prima che venisse inghiottito dalla lava dell’Etna», spiega. Con sua moglie, la pittrice e musicista Francesca Pizzo, e tre cani – il vecchio Masino, un meticcio e, ultimo arrivato, un molosso corso – vive fra alberi di aranci e limoni, progettando un orto sopraelevato per proteggerlo dagli animali. 

Agricoltore, ma anche un po’ falegname e un po’ fabbro. Trascorre la giornata a inventare e costruire strumenti musicali, ridando vita a scarti di legno o ferri vecchi. Aveva iniziato con le box guitar, riutilizzando scatole di sigari, per poi passare a marchingegni più complessi che utilizza in gran parte del suo nuovo disco, Saracena, inedito capitolo del suo percorso da “cuntastorie” con il quale celebra trent’anni di carriera dal primo album La pelle (1994), punto di partenza di un cammino originale e indipendente fra punk, rock e folk.

Cesare Basile (foto Andrea Nicotra)

E rieccoci a Neil Young. Come il canadese, anch’egli contadino e costruttore di strumenti, fa uscire un album di getto ogniqualvolta sente di dover intervenire e prendere una posizione contro la guerra o in difesa della Terra o per puntare il dito contro le multinazionali del cibo, così il catanese ha interrotto bruscamente il buen retiro, che ormai durava da cinque anni (dai tempi dello stupendo Cummeddia), per l’urgenza di dire la sua in un momento di grande confusione nel mondo, assistendo ogni giorno alla tragedia dei palestinesi e di quanti fuggono da guerre, carestie, persecuzioni e ingiustizie. E, in appena una ventina di giorni, è nato Saracena, il disco che uscirà il prossimo 3 maggio per Viceversa Records.

La copertina dell’album

«È stata una esigenza immediata: mi sono svegliato una mattina, poco dopo l’invasione israeliana della Striscia di Gaza e l’inizio dei massacri e mi sono chiesto cosa povesse fare un musicista», racconta Cesare Basile, tenendo un Toscanello spento fra le dita, vezzo rimasto dopo aver smesso di fumare lo scorso novembre. «La mia risposta è stata: “Il musicista fa il musicista, il poeta fa il poeta, il giornalista fa il giornalista, il guerrigliero fa il guerrigliero”. Ho sempre scritto i miei dischi seguendo stimoli molto forti. In questo caso ancora di più e, soprattutto, volevo concludere in breve tempo. Volevo che ci fossero pochissimi filtri fra le immagini che arrivavano nella mia testa, le intuizioni musicali e il fissarle. Ho evitato di andare in uno studio, di chiamare altri musicisti, a parte Puccio Castrogiovanni e Tazio Iacobacci in alcuni brani. Volevo che fosse un lampo. Ho voluto raccontare quello che io percepivo in quei giorni e, soprattutto, mettendomi in relazione con la mia storia di siciliano, di uomo cresciuto nel Mediterraneo che ha intrecciato la propria cultura con altre che in quest’Isola si sono radicate e anche con quella parte “saracena” che qui ci portiamo dietro, ma che spesso fingiamo che non sia mai esistita. L’idea base era quella di tracciare un parallelo fra le esperienze di esodo, di fuga, di diaspora, che abbiamo vissuto in Sicilia, che vivono in Palestina, in Nord Africa. Credo che l’esodo sia qualcosa che accomuna tanti popoli del Mediterraneo».

Un suono crudo, essenziale, fa da colonna sonora al viaggio del “saraceno” Cesare Basile. Che comincia da una casa diroccata e abbandonata di Noto, una volta abitazione di un arabo costretto alla fuga nel lontano 1200 dopo la conquista normanna, ma che sarebbe potuta essere anche il casolare di un siciliano emigrato negli anni Cinquanta o Sessanta: la spettrale e scheletrica C’è una casa rutta a Notu, che è anche il singolo dell’album.

«È una metafora, è la casa celebrata da un poeta arabo della diaspora, Abd al-Jabbar Ibn Hamdis, che descrive la nostalgia e il dolore nell’essere lontano dalla casa dell’infanzia, che è appunto quella di Noto. Che diventa una casa di Gaza, dell’Eritrea, dell’Etiopia, una casa siciliana che per tanti anni è stata abbandonata dalle persone che l’hanno abitata e dove sono cresciute, costrette ad andare via per motivi disparati. Noi conosciamo come ragione principale d’esodo, di migrazione, la mancanza di lavoro, motivazioni economiche, spesso anche politiche. Ma, se si riflette, le motivazioni economiche sono sempre alla base di un grande esodo. Ho provato a creare questi collegamenti, forse azzardati. Chiaramente non mi sognerei mai di mettere sullo stesso piano un ragazzo siciliano dei nostri giorni, pur costretto anche lui ad andare via, con un coetaneo palestinese in fuga perché gli buttano le bombe sulla casa. Però, è un destino che accomuna tanti popoli nel mondo».

Partenza come “spartenza”, termine dialettale siciliano che significa “distacco, divisione”.

«La “spartenza”, che è uno degli elementi che ho inserito nella narrazione, fa parte della cultura popolare siciliana. Ci sono tanti canti che parlano di “spartenza”, raccolti dal Pitrè come da Salomone Marino, che spiegano questo concetto: la “spartenza” è una separazione violenta da qualcosa, da una donna, da una terra, da una famiglia. E per questo mi è sembrato che ci fossero elementi sufficienti affinché si potesse raccontare una storia unica di tutte queste migrazioni, in ambito poetico e politico. Perché questo è sicuramente un disco politico».

Ho cercato di evitare l’uso di chitarre elettriche, mi piaceva l’idea di puntare su strumenti artigianali, imprecisi, che suonano anche male. Pensavo che questa scelta potesse diventare caratterizzante di tutto il lavoro. Come se dovessi adoperare dei mezzi di fortuna, che spesso è una caratteristica di chi scappa. Mischiarli con l’elettronica, della quale non sono un esperto, è significato mettere le incertezze insieme, dando il senso da un lato della fragilità e dall’altro il senso della determinazione che spinge il migrante ad andare avanti

Cesare Basile

Si parte dalle rovine di una casa per chiudere con l’immagine di un cappello in mare, fra rumori di spiaggia e un festoso sirtaki greco. È un segnale di speranza fra tanta disperazione?

«Cappeddu a mari non è altro che la storia di un cappello. Io andai due anni fa in Grecia con mia moglie perché il compagno della madre di Francesca, che era deceduto qualche anno prima, era innamorato di una isoletta, Kastellorizo, quella dove è stato girato il film Mediterraneo, e lì comprò e ricostruì una casa diroccata. Io e Francesca siamo rimasti in quella casa per due settimane: lei aveva un cappello Panama che era appartenuto al compagno di sua madre e ci teneva moltissimo. Al rientro, a Rodi, scendendo dal traghetto una folata di vento strappa via il cappello a mia moglie e lo porta in mare. Io ho immaginato che quel cappello stesse tornando nell’isoletta di Kastellorizo. È anche questa una canzone di “spartenza”. L’ho messa alla fine perché in qualche modo volevo coltivare una speranza, quella del ricongiungimento. E quel sirtaki che c’è nel finale e che voleva sottolineare appunto la speranza, alla fine sembra assumere un tono malinconico. Perché credo che l’utopia porti sempre con sé l’amarezza».

Nel mezzo ci sono due strumentali – Kafr Qasim e Bacilicò – nei quali giochi con i tuoi strumenti artigianali, facendoli dialogare con l’elettronica.

«Quella degli strumenti artigianali era un’altra di quelle sfide che mi ero imposto. Quando ho cominciato a lavorare, mi sono dato un punto di partenza. Avevo questo rebab, una sorta di strumento mediorientale molto semplice come struttura, ed ho cominciato a scrivere e, in effetti, quasi tutte le linee sono venute su questo strumento. Ho cercato di evitare l’uso di chitarre elettriche, mi piaceva l’idea di puntare su strumenti artigianali, imprecisi, che suonano anche male. Pensavo che questa scelta potesse diventare caratterizzante di tutto il lavoro. Come se dovessi adoperare dei mezzi di fortuna, che spesso è una caratteristica di chi scappa. Mischiarli con l’elettronica, della quale non sono un esperto, è significato mettere le incertezze insieme, dando il senso da un lato della fragilità e dall’altro il senso della determinazione che spinge il migrante ad andare avanti».

Ciuri i Cutugno e Caliti Ciatu si riallacciano alla cultura popolare dei proverbi. “Nun ti fidari si la corda è longa / Ca cchiù chi longa è cchiù ti ‘nganna”, recita il primo, mentre il secondo ricorda quel “Caliti junku ‘ca passa la china” di Franco Battiato. Entrambi fra elettronica e rumori registrati su nastri.

«Caliti Ciatu di fatto è un riadattamento di una poesia di Mahmoud Darwish, poeta palestinese morto qualche anno fa, che dice: “Piegati finché passa la tempesta”. E quando ho letto questa frase ho subito pensato al nostro proverbio che dice “caliti junku ‘ca passa la china”». 

In Prisenti assenti parli di Gerusalemme e canti. “Non combatto e neanche prego / difendo il desiderio dei poeti”.

«In questo album ho lavorato molto con i testi di Mahmoud Darwish. Questo è uno “spoken word” realizzato attraverso un “cut up” di scritti di Darwish, poi tradotti in siciliano, che in qualche modo racconta lo spaesamento e il dolore del poeta, che cerca di trasformare in bellezza senza però riuscirvi. “Presenti assenti” è quello che i palestinesi hanno sempre pensato di loro stessi, perché dopo il primo esodo, quando Israele costrinse la popolazione a lasciare le proprie case dopo la prima invasione, tanti di loro, dopo un breve periodo, tornarono. Però non potevano avere documenti, per cui erano presenti, ma assenti allo stesso tempo, perché non esistevano legalmente. Ma esistevano per finire in galera. In pratica, è lo stato d’animo ma anche fisico, politico e civile di chiunque si trova in un luogo che gli appartiene e del quale non fa più parte, dal quale è stato cacciato e nel quale ritorna e viene riconosciuto soltanto per essere perseguitato, senza mai avere riconosciuto un diritto. Che, per certi versi è anche la condizione dell’emigrato al quale in Italia non viene riconosciuto lo “ius soli”».

Il poeta palestinese Mahmoud Darwish

U iornu do Signuri sono oltre sei minuti e mezzo fra cornamuse e synth, molto duro nel testo che tu intoni da cuntastorie: “Il giorno del Signore è tutti i giorni /Negli occhi dei ragazzi carcerati / Quelli più belli impiccati al centro della piazza / Il giorno del Signore è senza armate”.

«È una immagine abbastanza forte. Era quello che facevano le truppe di occupazione israeliane in Palestina: raccoglievano i giovani maschi e più belli venivano impiccati. L’hanno fatto gli israeliani, ma prima di loro l’hanno fatto altri, i nazisti, non mancano esempi nella storia e, soprattutto, nella storia non manca mai chi prende il testimone di queste pratiche, pur avendole subite. La canzone è il grido disperato di chi dice agli invasori, a tutti gli invasori: “Vattene, portati i nomi che ci hai imposto, portati tutto quello che vuoi, perché non è vero quello che tu dici del tuo dio, che il giorno del Signore sarà fuoco e fiamme. Perché il giorno del Signore non è quello degli eserciti, ma della pace e dell’amore».

“La guerra finirà. I leader si stringeranno la mano”, scriveva Mahmoud Darwish, la cui poesia è stata considerata un’arma dagli israeliani. Per lui scrivere era resistere. Per te fare musica cosa rappresenta?

«Resistere, sì… e dare anche un senso al proprio passaggio su questo mondo. Ho sentito l’urgenza di raccontare, di prendere posizione, perché non dico che tutti i musicisti e, più in generale, tutti gli artisti debbano per forza occuparsi di politica. Però devono occuparsi del proprio tempo. E se il proprio tempo richiede delle prese di posizione, io credo sia giusto farlo. Per me è sicuramente una maniera di resistere a un mondo che non capisco o, meglio, che capisco troppo bene per poterlo accettare. E, poiché sono un musicista, con le mie canzoni prendo delle posizioni. Quindi, sì resisto».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *