– Nell’album “Suite” dell’artista di Quartu S. Elena, tradizioni, cumbia, dub, poesia e documenti musicali sono i diversi strati sonori che fluiscono, si sovrappongono, dialogano tra loro e si sostengono a vicenda, scompaiono e riappaiono senza soluzione di continuità
– «Il mio punto di partenza è l’urbanistica. Accanto a chiese campestri gotico-catalane c’è una palazzina in blocchetti di cemento e mattoni rossi forati e, a fianco, c’è una casa tradizionale in terra cruda. Penso sia così dappertutto»
– «La perfezione è stata esplorata abbondantemente in altre epoche storiche, a noi rimane di cercare le combinazioni, magari quelle più fantasiose e folli, per fare stare insieme mondi apparentemente lontani: potrebbe essere una strada sulla via delle nuove musiche possibili»
Vive tra il mare, i monti, i boschi e gli stagni di Quartu Sant’Elena. A San Gregorio, per l’esattezza, «a mezz’ora da Cagliari: è un borgo di 64 abitanti alle pendici dei Sette Fratelli. Un borgo di musicisti, insegnanti, liberi professionisti che ha scelto di vivere lontano dalla città». Nel sud di un’isola che si trova nel Mediterraneo e che guarda all’Africa. «La nostra cultura è antichissima, un lungo filo mai spezzato tra il passato lontano e l’oggi. Ma mai chiusi entro noi stessi, siamo sempre stati interconnessi con il resto del mondo».
E i paesaggi sonori di Francesco Medda, in arte Arrogalla, spaziano dalla cantina sotto casa, dove si beve vino e si recitano poesie, ai suoni pompati dallo stereo delle macchine e dalle casse bluetooth dei ragazzi, alle musiche provenienti da Napoli, dall’Africa, dal Sud America e dai Caraibi; dalle voci dei pescatori di Sant’Elia a quelle del mercato di Ballarò di Palermo sino al Kawangware Market di Nairobi; dall’alba in centro città ai cervi in amore di San Gregorio; dagli uccelli nel lago di Naivasha alle esercitazioni militari notturne di Teulada. Caos e serenità. Pace e guerra.
Il lavoro di campionamento, di fields recordings e di documentazione sonora fa parte della ricerca che Arrogalla persegue e propone dai suoi inizi come writers. «Facevo graffiti, e “arrogalla” è la traduzione in sardo della mia tag», spiega. «Vuol dire frammenti, pezzettini, un termine che ben si accosta al lavoro che faccio io come producer, che vado a raccogliere schegge di suoni senza tempo, campionamenti, paesaggi sonori».
E come è avvenuto il passaggio da writers a producer?
«Ho cominciato a dipingere, mi sono innamorato della cultura hip hop, quindi s’inizia a fare free style in cameretta, per il quale ti servono le basi e, a quel punto, come tanti, ho fatto i lavori più disparati, dal portapizze a scaricare letame in campagna, per comprarmi batterie elettroniche, spie, amplificatori, mixer. Da lì ho cominciato attingendo alla realtà, sia dai suoni del mio circostante, quelli della natura di Quartu Sant’Elena a cavallo fra i monti, lo stagno, la campagna, sia quelli della tradizione popolare, sia della musica contemporanea».
Arrogalla riesce così nel suo nuovo disco Suite a far convivere cumbia e dub, trunfa e clarinetto, sax e mandola, organetto e marranzano, elettronica e reperti di canto tradizionale modificati con l’autotune, e a far stare sullo stesso palcoscenico Pier Gavino Sedda con i suoni dei Tumbarinos di Gavoi (1), il Cuncordu e Tenore de Orosei e Su Cuntrattu Seneghesu con il cantu a tenore (2), Francesca Romana Motzo al clarinetto, Mauro Palmas alla mandola, Pierpaolo Vacca all’organetto diatonico e la band reggae Ratapignata. “Ingredienti” ai quali ha dato la forma di una suite, in cui i diversi strati sonori fluiscono, si sovrappongono, dialogano tra loro e si sostengono a vicenda, scompaiono e riappaiono senza soluzione di continuità.
Qual è il punto di partenza, quello che citi tu, il matzamurru (3), una sorta di “mappazzone” per dirlo secondo lo chef Bruno Barbieri?
«Esattamente», sorride. «Il mio punto di partenza, fondamentalmente, è l’urbanistica. Io vivo in un posto estremamente disordinato, ma ritengo che sia così anche in Sicilia e ovunque. Accanto a chiese campestri gotico-catalane c’è una palazzina in blocchetti di cemento e mattoni rossi forati e, a fianco, c’è una casa tradizionale in terra cruda: è un disastro urbanistico. Ci sono così tante stratificazioni nello stesso posto che condizionano la creatività. Nella via dove vivo io c’è una cantina dove si beve vino e s’improvvisa poesia estemporanea, una pasticceria parigina, ferro vecchio nordafricano, gente che mangia sushi e di notte si ascolta reggaeton o hip hop o musica tradizionale».
È una musica che rispecchia quindi i nuovi paesaggi sonori o è una colonna sonora per una Sardegna gentrificata?
«La Sardegna ha sempre vissuto scambi. In realtà questo suono è uno dei modi possibili che hanno i compositori di musica contemporanea. Dato che la perfezione è stata esplorata abbondantemente in altre epoche storiche, a noi rimane di cercare le combinazioni, magari quelle più fantasiose e folli, per fare stare insieme mondi apparentemente lontanissimi, che magari cozzano fra di loro, creando nuove musiche partendo da cose lontanissime. È il frutto del mio circostante, potrebbe essere una strada sulla via delle nuove musiche possibili. Nella Suite ho cercato di mettere tante influenze nell’intento di annullare i punti geografici di partenza, giocando molto con le voci dei mercati che ho registrato».
Confesso che fra i vari paesaggi sonori, quello che mi ha colpito di più sono i cervi in amore. Li hai raccolti tu o li hai “rubati”, come confessi: «Dalle mie parti si dice: s’òmini chi no furat no est òmini (l’uomo che non ruba non è un uomo)».
«Tutti i paesaggi sonori li ho registrati di persona, i cervi sono stati facilissimi perché basta andare a fine agosto inizio settembre intorno a casa mia è invaso di cervi e quindi si sentono lamenti fortissimi. È capitato che alcuni turisti abbiano chiamato la forestale perché hanno creduto che ci fossero leoni. Invece erano cervi in amore».
Continuando il paragone culinario, non c’è il rischio di sfornare una pizza all’ananas, che si perda l’identità della cultura sarda?
«Ma no. Secondo me no. Può piacere e non piacere. Tutti i suoni che ci sono nel disco li ho studiati per moltissimi anni. La musica popolare sarda la seguo, la vivo, la amo. La cumbia è da più di dieci anni che la studio, come è nata, come si è evoluta. Li ho elaborati così bene che sono riuscito a mettere insieme cose che sono tecnicamente sbagliate per un concetto di musica occidentale. Ci stanno insieme balli sardi in sei ottavi con brani in dub che vanno in quattro ed elementi di musica tropicale, come la cumbia, che invece hanno un tempo con accenti completamente diversi. Suite è un lavoro svolto in tre anni, quindi ho avuto il tempo per portare a compimento questi accostamenti. Il rischio pizza all’ananas può esserci, però se si giustifica in qualche modo magari ci può stare»
Il popolo sardo in genere viene descritto come un insieme di persone diffidenti, chiuse. Qui esce fuori una immagine cosmopolita, aperta a ogni influenza.
«Gli altri ci dipingono così e magari noi interpretiamo questo copione. La nostra cultura in realtà è quella dell’accoglienza, del mischiarsi. L’isolano probabilmente, anche storicamente, deve difendersi, però accoglie anche. Viviamo di scambi, anche se talvolta sono violenti, terribili, ingiusti».
I testi in Suite hanno un ruolo musicale, la parola ha un valore sonoro piuttosto che un significato concettuale.
«Ho cercato di valorizzare la produzione poetica dei Tumbarinos di Gavoi, che sono un progetto di musica tradizionale c composta con tamburi, flauti, triangoli. Mi piaceva valorizzare anche la loro produzione poetica, perché hanno liriche e canti che si tramandano da secoli con significati belli, irriverenti, nascosti. E poi ho voluto omaggiare il canto a tenore in due forme che mi piacciono tantissimo e che sono quelle del Su Cuntrattu Seneghesu e di Orosei. Il significato delle parole è stato meno importante, però volevo che questa forma poetica entrasse insieme a due canti monodici femminili degli anni Cinquanta che ho recuperato. Sono quasi tutte filastrocche, soprattutto duru duru (4), che canti per fare addormentare o divertire i bambini».
In Sardegna si assiste a un notevole fermento musicale, ricco di proposte interessanti: Daniela Pes, premiata con la targa Tenco, Pierpaolo Vacca, nel jazz il portabandiera Paolo Fresu.
«Noi in Italia sembriamo uno Stato estero. Abbiamo una produzione musicale gigantesca. Una ricchezza creativa che coinvolge in modo paritario e democratico uomini e donne e ogni genere: tradizione, pop, jazz, sperimentazione. Daniela ha svolto un lavoro pazzesco grazie anche a Iosonouncane. Ma c’è anche Dario Licciardi, tutto il jazz che viene prodotto qui. E poi, a fianco di mostri sacri, crescono le nuove generazioni. C’è una scena importante ed è quindi facile suonare, scambiare idee, pensare a progetti. È più difficile esportare, in Italia è ancora più difficile visti i collegamenti. Paradossalmente per noi è più facile andare a suonare nel resto dell’Europa che in Italia».