Interviste

VARV, un laboratorio a quattro mani

– Gli emiliani Andrea Cappi e Francesco Mascolo sono gli alchimisti in “Lowlands”, album di debutto del duo che fa uso di tastiere, sintetizzatori e percussioni 
– Una musica di confine, nella quale l’improvvisazione jazz rappresenta il punto di partenza per poi proseguire sulle vie di musiche possibili con l’elettronica protagonista
– «La presa di coscienza che “siamo” anche e soprattutto in base al posto in cui viviamo è stato l’elemento primario “non-musicale” che ha ispirato il concept del disco»

Pianista, tastierista, compositore superattivo. Una grande passione per l’improvvisazione e un vizietto per Thelonious Monk, argomento di tesi di laurea a conclusione dei suoi studi in Conservatorio. E punto di partenza di un percorso musicale che dopo l’esordio nel 2015 in trio con i Flown registra altri passaggi: nel 2018 è nel quartetto electro-pop Noctua, due anni dopo dà vita al progetto Multibox e con l’album Eleven Tokens segue le tracce di una “intelligent dance music”. Nel 2021 un’altra mutazione con VARV, un duo sperimentale, una sorta di laboratorio a quattro mani, nel quale Andrea Cappi è uno degli alchimisti. 

Quante anime ha Andrea Cappi?

«Il progetto VARV nasce inizialmente sulla base di una necessità: riuscire a suonare e studiare insieme con regolarità, condividendo pensieri e intenzioni musicali. Questo oggi è molto difficile soprattutto nell’ambiente jazz, dove di norma i musicisti partecipano a svariati gruppi e difficilmente si ha la possibilità di suonare insieme con continuità. Diversa invece è la situazione di un duo dove diventa tutto molto più agevole dal punto di vista organizzativo. Con Francesco (Mascolo, batterista, il secondo alchimista) abbiamo iniziato a studiare su alcuni elementi ritmici per poi sperimentare con macchine (sintetizzatori, groove box…) ma con l’obiettivo ultimo di costruire qualcosa che potesse essere prima di tutto suonato e riproposto dal vivo. È venuto fuori un disco dove sono presenti tanti elementi provenienti da generi diversi come è capitato spesso nei miei ultimi progetti».

Andrea Cappi

Le prime sono esperienze concluse, sopravviveranno in parallelo o rispunteranno in futuro?

«Spero di riuscire a concludere al più presto il secondo album dei Multibox, sul quale sto lavorando. Intanto sto portando avanti un altro progetto a mio nome, per il quale in passato avevo pubblicato due singoli (Hidden patches e First day of the year) e con cui vorrei presto pubblicare qualcosa di nuovo. Per quanto riguarda i Flown, direi che si tratta di un’esperienza conclusa».

VARV è lo sviluppo e la confluenza delle esperienze precedenti o è una deviazione?

«Rappresenta sicuramente uno sviluppo delle esperienze precedenti. Tornando sul discorso del numero degli elementi… il fatto di essere in due rappresenta uno stimolo che, come capita spesso quando si pongono delle limitazioni e dei vincoli, ti porta a mettere in gioco strategie diverse, sia dal punto di vista compositivo che da quello dell’estemporaneità. Vedendola dall’altro lato, cioè non come una limitazione ma piuttosto una facilitazione, il duo permette una maggior libertà espressiva in certi frangenti. Parlando per me, il fatto di essere l’unico che si occupa ad esempio dell’elemento armonico mi garantisce un grande spazio in questo ambito».

E in tutti questi contesti Andrea Cappi ha un ruolo centrale o è l’influenza del/i compagno/i di avventura a determinare i nuovi percorsi da imboccare.

«Il ruolo è centrale soltanto dal punto di vista delle composizioni o degli spunti iniziali dei brani. Da lì in poi le persone con cui suono danno un contributo fondamentale alla musica. In questo caso con Francesco è stata una continua correzione e rielaborazione di parti, in alcuni momenti devo dire sfinente, fino a quando la cosa non ci soddisfaceva in pieno. Ricordo pomeriggi interi passati soltanto a “raddrizzare” alcune parti di brani che non ci convincevano… questo avveniva soprattutto sul suono, in cui c’è stata una ricerca costante, e sugli incastri tra tastiere e batteria».

Lowlands è il titolo dell’album di esordio dei VARV. Gli emiliani Andrea Cappi e Francesco Mascolo, che porta la sua formazione legata alla black music, spaziano negli sconfinati territori della musica, partendo dalla fusion di Drizzle, passando attraverso momenti quasi free, alla Pollock, in All Fulness, che poi divaga nell’avanguardia. Il background jazz riemerge nel sax suonato da Daniele Nasi in Ready Arteries. Echi di progressive in Limestone. Ma i veri protagonisti sono i sintetizzatori. 

Poi c’è White Kitten. Cos’è? Una provocazione, avanguardia, sperimentazione estrema, una semplice follia. Ci sono futurismi, ma anche elementi che richiamano esperienze del passato.

«Una semplice follia mi piace molto. Abbiamo inaugurato questa serie dei “gattini colorati” dove fondamentalmente ci allontaniamo dall’elemento scrittura e proviamo a creare momenti di variazioni e contrasti partendo da un’idea minimale e mantenendo il focus ben puntato sull’elemento suono e la sua manipolazione».

La musica di Lowlands sembra realizzata come la colonna sonora di un immaginario film tra il distopico e la fantascienza. Qual è la relazione fra le immagini e la musica dei VARV?

«Diverse persone, durante la registrazione del disco, ci hanno detto che i brani sembravano appartenere a una colonna sonora. E, effettivamente, tenendo anche conto che alcuni brani sono stati scritti parecchio tempo fa e ultimati per questo progetto, il repertorio rappresenta e racconta diverse fasi legate alla nostra evoluzione come musicisti ma più in generale come individui e, allargando ancora di più, come soggetti appartenenti a una comunità… Il rapporto tra questa società di individui e il territorio, dal punto di vista morfologico e culturale, è un tema che ci ha ispirato in varie discussioni sulla musica ma non solo. La presa di coscienza che “siamo” anche e soprattutto in base al posto in cui viviamo è stato l’elemento primario “non-musicale” che ha ispirato il concept del disco». 

Presentando Kings of Weno, la canzone che chiude l’album, scrivete che «parla di sognare di fuggire dalla città per vivere su una lontana isola tropicale nel Pacifico». Ma, con il riscaldamento globale della Terra e l’innalzamento degli oceani, le isolette del Pacifico sarebbero le prime a scomparire. In pratica, non lasciate speranze.

«Kings of Weno è un brano auto-ironico che parla, se vuoi banalmente, di un sogno di fuga adolescenziale dalla propria terra verso un’isola sperduta. Weno è un’isola del Pacifico di cui ci piaceva il nome, che pare richiamare un regno lontano sul quale possiamo solo fantasticare. Non c’è nessun riferimento più profondo qui al riscaldamento globale, tema che comunque ovviamente ci sta a cuore». 

Oggi, lo sapete per primi voi, con i dischi non si guadagna. È più importante portare in giro il progetto per locali e festival. Vi state organizzando in tal senso? E quale ritenete essere la location più adatta per la vostra musica? I festival jazz o i locali di elettro-dance?

«Per noi l’attività live è sicuramente fondamentale. Abbiamo in programma un tour in settembre che ci porterà un po’ in giro tra Svizzera, Austria, Cechia, Ungheria, Italia ovviamente… E poi cercheremo di inserire qualcos’altro. La location più adatta, per tutti quei generi che come il nostro sono un po’ di confine, non esiste purtroppo. Esistono gli organizzatori che apprezzano…. e che magari poi ti invitano a suonare. Può trattarsi di piccoli locali, jazz club, rassegne o eventi una tantum. Quello che fa la differenza è sempre la ricezione e l’interesse da parte del pubblico che magari non ti conosce e ti ascolta per la prima volta».

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