– La cantautrice canadese festeggia il compleanno il 7 novembre. Rivoluzionaria ante-litteram, fu la prima donna a scrivere e cantare le proprie canzoni
– Da giovane ha lottato contro i dirigenti maschi che cercavano di mercificarla e licenziarla. Neanche l’aneurisma del 2015 è riuscita a sconfiggerla
– Dal folk al jazz, una carriera in continuo cambiamento con la donna sempre al centro. Paradossalmente, il riconoscimento culturale è arrivato dopo il malanno
La sua straordinaria abilità artistica e il suo rifiuto di scendere a compromessi hanno trasformato Joni Mitchell in un’icona del rock ribelle, creativo e incontaminato. Non è quindi un caso che alla vigilia del suo ottantesimo compleanno, che festeggerà il 7 novembre, si assista a un fiorire di concerti e tributi, tra cui un documentario nella nuova serie Legends della Bbc, ma anche un nuovo album – il terzo dai suoi archivi – e un ritorno sulle scene.
Arriva all’altra sponda del suo Both Sides Now vitale e piena di creatività, a dispetto dell’aneurisma al cervello che nel 2015 per poco non l’ha mandata all’altro mondo costringendola ad abbandonare per anni la musica e le performance dal vivo. «Sono sempre stata una creatura di cambiamento», ama ripetere la cantautrice canadese di Big Yellow Taxi e The Circle Game.
Una (ri)scoperta che forse giunge tardiva, se pensiamo ai fiumi d’inchiostro consumati per Bob Dylan, Bruce Springsteen, Pete Townshend e tanti altri suoi colleghi maschi, ai quali non ha nulla da invidiare. Anzi. Ha dato prove di essere dotata di un talento e un carisma pari a loro, se non di più.
Fornire un elenco dei suoi lavori più importanti sarebbe troppo lungo, a cominciare da Clouds per arrivare a Don Juan’s Reckless Daughter o Mingus. C’è una prima Joni, piena di trilli e un po’ gotica, e poi la Joni così emotivamente nuda in Blue nel 1971, forse quella più celebrata, la Joni dell’onestà radicale e della saggezza oltre la sua età. Ci sono Joni a metà carriera, inclusa quella che ha introdotto il jazz in For the Roses e Court and Spark, e quella dai testi sempre più lunghi, così rivelatori, cinematografici e formalmente serrati del magistrale Hejira. C’è anche la Joni post-autobiografica, la cui critica sociale, da Dog Eat Dog del 1985 in poi, è stata spietata quanto il suo primo candore romantico.
Ma, soprattutto, Joni Mitchell è stata una rivoluzionaria. Forse, per il tempo, più rivoluzionaria di Madonna. In un mondo maschilista e, talvolta, misogino come quello del rock, e più in generale della musica, ha posto la donna al centro. Per la prima volta, la donna non era l’interprete di canzoni e sentimenti scritti da uomini, ma scriveva e cantava in prima persona. Nasceva la cantautrice. A partire dai suoi anni da club a metà degli anni Sessanta, ha lottato per avere il pieno controllo sulle sue uscite, nonostante i dirigenti maschi cercassero di mercificarla e licenziarla, e ha resistito alla pressione per scrivere successi radiofonici prima e dopo il suo singolo più popolare, Help Me, una canzone apparentemente semplice di seduzione e paura, amore e fuga. Joni Mitchell si rifiutò sempre di rientrare in categorie precise e facilmente commercializzabili, fondendo folk e rock con jazz e world music. La sua For the Roses distrugge il business della musica che schiaccia la creatività.
Joni è stata molto amata dalle donne, è stata la prima cantautrice a esprimere l’universo sentimentale femminile. Ed è stata una grande jazzista, che si è conquistata la stima di Mingus, il plauso di Miles Davis. Quando scrive sembra dipingere immagini forti e poetiche, non a caso è anche una apprezzata pittrice. La sua musica non è mai scontata, ha fatto tanta ricerca.
Rossana Casale
«Joni è stata molto amata dalle donne, è stata la prima cantautrice a esprimere l’universo sentimentale femminile», spiega Rossana Casale che sta portando in tour il suo album In and Out of Line, omaggio alla cantautrice canadese. «Ed è stata una grande jazzista, che si è conquistata la stima di Mingus, il plauso di Miles Davis. Quando scrive sembra dipingere immagini forti e poetiche, non a caso è anche una apprezzata pittrice. La sua musica non è mai scontata, ha fatto tanta ricerca. Una delle cover è The Jungle Line, 1975, trionfo di sperimentazione per quell’epoca, con un primitivo esempio di campionamento del suono di alcuni tamburi suonati dalla popolazione indigena del Burundi».
Paradossalmente, il riconoscimento culturale a lungo negato a Joni Mitchell è arrivato nel 2015, anno in cui fu colpita da un aneurisma che le ha impedito di camminare e parlare. L’effusione di amore e stima è stata una svolta. Mentre continuava a migliorare, il sostegno e il riconoscimento che senza di lei non ci sarebbe stata Taylor Swift, tra gli altri, sono stati inarrestabili. Con l’incoraggiamento della sua più grande e più giovane fan, la cantautrice Brandi Carlile, Mitchell è uscita dal suo sdegnato esilio ed ha cominciato a mostrarsi al pubblico più di quanto lo avesse fatto negli anni Settanta. Perfezionista com’è, non si sarebbe mai esibita in circostanze non ideali o con una voce imprecisa, ma si è lasciata travolgere dallo spirito, permettendo persino la pubblicazione dei suoi vecchi demo, scarabocchi in studio e performance dal vivo in una serie d’archivio, il cui terzo cofanetto, Joni Mitchell Archives – Vol. 3: The Asylum Years (1972-1975), è appena uscito.
Jess Wolfe e Holly Laessig, Brandi Carlile, e Sara Bareilles posano con Joni Mitchell il giorno in cui alla cantautrice canadese è stato consegnato il Gershwin Prize for Popular Song (foto Shawn Miller/Library of Congress)