Storia

Daniela Pes, la cantadora sarda

Il suo album “Spira” premiato con la Targa Tenco 2023 come Miglior Opera Prima. Un disco visionario e misterioso, di ricerca, con un respiro internazionale e un’attenzione al recupero di suoni tradizionali e ancestrali. L’uso di una lingua che non esiste, con antiche parole galluresi e frammenti di termini italiani. La produzione di Iosonouncane
La copertina dell’album

L’album Spira è un disco che se fosse stato registrato da Björk o da Laurie Anderson tutti avrebbero gridato immediatamente al capolavoro. Invece, l’autrice è la giovane, e ancora poco conosciuta, Daniela Pes, “cantadora sarda” che ha dovuto mettere in pratica il coraggio e la caparbia tipica della sua gente per superare barriere e abbattere porte. Ed i risultati cominciano a vedersi, come conferma la prestigiosa Targa Tenco 2023 come Miglior Opera Prima.

Non è il primo riconoscimento per la cantautrice gallurese. Nel 2017 vinse il premio “Andrea Parodi”, poi i Nuovoimaie (2017 e 2018) e Siae miglior musica nell’ambito di Musicultura. Tante medaglie sul petto che, però, non l’hanno distratta dal suo percorso di ricerca. «Dopo aver vinto i premi, mi sono fermata perché volevo capire dove dovessi andare e che cosa dovessi fare», dice. «Ho rinunciato anche a un contratto discografico già firmato. E lo rifarei miliardi di volte».

Daniela Pes non si lascia travolgere dalle illusioni create dai quindici minuti di successo, rimanendo sempre con i piedi sulla terra. Sulla sua terra. «Sono cresciuta a Tempio Pausania, un piccolo comune nel cuore della Gallura, la città della pietra, è tutta fatta di granito, piena di musica e di cultura in generale», racconta. «Lì c’è l’Agnata, è stata la casa di De André per molto tempo. Mia madre aveva una grande passione per la musica, un grandissimo gusto, mio padre suona qualsiasi strumento. Hanno trasferito tutto questo a me e ai miei due fratelli. Il più grande è compositore, vive a Dublino, il più piccolo è un bravissimo batterista. Nel mondo in cui sono cresciuta ho potuto mettere in pratica tutte le idee che mi venivano, anche le più bislacche».

Daniela Pes (foto Piera Masala)

Agli inizi è Fabrizio De André. Insieme con Samuele Bersani, Francesco De Gregori, Ivano Fossati, Ivan Graziani, Lucio Dalla, Lucio Battisti, tutta la scuola d’élite, quella eterna, che ha scritto pagine indelebili della musica italiana. Nel frattempo, matura una lunga esperienza all’interno della musica jazz. Ampliando i suoi ascolti alla musica israeliana, armena, «che mi ha aiutato, come detto insieme al jazz, nell’approccio alla scrittura musicale e anche nella ricerca della consona destinazione del suono della voce».

Poi l’incontro con una delle voci nuove e più originali e impegnate del nuovo cantautorato, Jacopo Incani, in arte Iosonouncane, sardo anche lui, che ha prodotto Spira. «Ero nella burrasca e ho dovuto trovare un appiglio, qualcuno che comprendesse la mia confusione e il mio non riuscire a trovarmi. Gli ho inviato una mail. Lui l’ha letta, ha ascoltato la manciata di brani che gli avevo mandato, di cui non ero soddisfatta, e mi ha inviato una bellissima risposta, confermando tutte le criticità che mi sentivo addosso. Da lì il nostro rapporto di amicizia e artistico non si è più interrotto». 

Jacopo Incani, in arte Iosonouncane

Vengono gettati i semi per Spira. Un album che si colloca in un territorio musicale di ricerca, con un respiro internazionale, e un’attenzione al recupero di suoni tradizionali e ancestrali. Tra elegante e oscura elettronica dai beat a tratti galoppanti e ambient dal respiro cosmico, sette tracce avvolte dal canto di un’artista dal talento multiforme, votata alla destrutturazione della forma canzone e alla decostruzione della lingua per creare un mondo sonoro esoterico in cui l’arcaico, il contemporaneo e il futuribile si avviluppano l’un l’altro come nella danza gravitazionale di due galassie in procinto di fondersi. In un linguaggio tutto suo ci porta dentro architetture elettroniche intrecciate di tradizioni remote, piene di echi misteriosi, ma intimi. Musica visionaria e misteriosa che interpreta la drammaturgia sonora come utopia, dove passato e presente s’incontrano. E se la dimensione strumentale sembra evocare immagini cinematografiche, quella vocale avvicina Daniela Pes più alla ricerca linguistico-espressiva di certo teatro contemporaneo. 

Nell’album c’è una lingua che non esiste, che mischia antiche parole galluresi, altre inventate in cui nuotano pezzetti riconoscibili di vocaboli italiani, in cui i versi sono svincolati dalla metrica e le parole non sono veicolo di un concetto, bensì puro suono. «Prima di questo disco arrivavo da un lungo lavoro in cui ho musicato molte poesie di un poeta del Settecento del mio paese, che utilizzava un dialetto gallurese arcaico». Daniela Pes ha aumentato il fascino di quelle poesie di Don Gavino Pes mettendole in musica e vincendo due premi. «Ho imparato tanto da questa esperienza a livello di relazione tra suono, metrica e composizione. E poi non mi è più bastato servirmi di quelle parole per scrivere musica. Sono riuscita ad aggirare questo ostacolo scegliendo di abbandonare il concetto e la metrica così da essere libera nella composizione musicale di andare dove volevo. Il gallurese ha una musicalità aperta ed esclusiva. Vorrei che del mio disco interessasse la musica, e una lingua così remota può essere una chiave per farlo ascoltare. Mi rende più libera rispetto a un disco in italiano, almeno per ora».

Il Premio Tenco è la ciliegina sulla torta per un lavoro durato tre anni e che sta dando frutti inaspettati. «Sono molto sorpresa del riscontro. Non mi aspettavo fosse un disco così accessibile da essere ben assimilato da appassionati di varie fasce d’età, provenienti da culture musicali diverse e da linguaggi differenti. Quello che sto percependo è che il disco è apprezzato non solo da cultori raffinati di musica, con un certo tipo di background, ma anche da chi è solitamente indirizzato verso altri generi, distanti da quello che potevo immaginare come mio target iniziale. Mi sorprende constatare anche l’alto numero di persone che mi seguono. Fare 200.000 ascolti Spotify in un mese, fare le prime date sold-out, sinceramente non me l’aspettavo, soprattutto per un disco di questo tipo», si meraviglia la cantadora sarda. «Durante la stesura del lavoro, avevo la sensazione, senza dubbio, di essere protagonista di qualcosa di prezioso, a prescindere dal risultato, soprattutto per me. Sapevo di avere in mano qualcosa d’importante per il mio percorso. Chiaramente, in questi tre lunghi anni di gestazione, varie volte mi sono chiesta: “Come andrà? Non lo so!”. Il fatto di aver compiuto un lavoro così destrutturato sulla lingua, più che quello approntato sulla sperimentazione musicale, mi ha posto molti interrogativi sul gradimento che ne sarebbe scaturito. Sono davvero orgogliosa di aver ricevuto un riconoscimento così prestigioso».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *