– Il violinista napoletano pubblica domani il suo progetto solista “Miradois”: la collina del Rione Sanità diventa punto di osservazione per scrutare oltre i confini «spesso imposti dall’esterno»
– L’album è il diario di bordo di un musicista-velista che ha viaggiato dalla Grecia all’Andalusia, da Mosul a Dahar, con un equipaggio di eccellenti amici musicisti. Un approccio jazz, con veementi momenti rock e prog
– «Io vengo da influenze diverse, nonno tunisino, origini in Sicilia, padre napoletano». «Il collegamento con le mie radici napoletane è nelle dominazioni che la città ha subito, ho evitato di andare a mangiare al seno di Partenope»
Miradois è il nome di una collina nel centro di Napoli, nel Rione Sanità. “Mira todos”: un luogo da cui, emergendo dal cuore della città, si poteva vedere tutto. È il punto di osservazione, come lo era ai tempi dei conquistadores, di Alfredo Pumilia, uno dei violinisti più apprezzati e richiesti della scena partenopea. Da lì scruta oltre i confini «spesso imposti dall’esterno», captando i suoni, i rumori, i sapori e gli umori del Mediterraneo. È qui, dietro le finestre di casa sua, che è nato l’album che porta il titolo della collinetta, Miradois, ennesimo gioiello della Liburnia Records in uscita venerdì 29 marzo.
È il lavoro discografico con il quale il violinista dalle origini siculo-tunisine si stacca dal cordone ombelicale del progetto iniziale con gli Araputo Zen, per dipingere «un ritratto sonoro che raccoglie le mie esperienze musicali negli ultimi due anni», spiega. «Io vengo da influenze diverse, mio nonno era tunisino, origini in Sicilia, a Partinico, padre napoletano. Ho viaggiato in Grecia, Turchia, Spagna, Nord Africa, dove sono stato spesso per ricerca musicale». È, quindi, il diario sonoro di un navigatore solitario (Pumilia è anche un velista), anche se per l’occasione ha imbarcato un equipaggio composto da un fior fiore di musicisti, oltretutto amici: atmosfera di complicità che si respira nella genuinità e nel divertimento del suonare insieme.
E Napoli? C’è un collegamento con le radici partenopee?
«Il fatto che Napoli abbia subito tutte queste dominazioni per me è già un collegamento. Ci sono stati i greci, gli arabi, gli spagnoli. Per il resto no, mi sono tenuto abbastanza lontano dalla napoletanità, perché ormai ce n’è molta. Quasi per rispetto. Mo’ dico una cosa strana: è come se il seno di Partenope fosse pieno e tutti stanno andando a mangiare là. Quindi, non volevo che sembrasse che lo facessi anch’io giusto per acchiappare, perché va forte. Ho detto: “Facciamo quello che mi viene e basta”».
Il viaggio comincia da Mosul, la città irachena tristemente conosciuta come la capitale dell’Isis, ridotta in macerie, dalle quali tenta da alcuni anni di risollevarsi.
«È nata proprio quando sono stato là, nel marzo di due anni fa, ospite di un festival organizzato dall’Unesco proprio per rilanciare la città. Stavo sempre con musicisti del posto. Quindi, a furia di suonare con loro, ho assorbito un po’ di cose e mi è uscito questo temino in albergo. Me lo son tenuto e, quando son tornato a Napoli, l’ho sviluppato. È una dedica a Mosul ed al periodo che ho trascorso con quei musicisti».
La seconda tappa è Dahar, e il clima diventa più festoso, il basso detta la linea, s’intrecciano elettronica e strumenti tradizionali.
«È una catena montuosa della Tunisia, ed è l’unico posto dove non sono stato. Però mio nonno era tunisino. È nato e vissuto là. È un pezzo molto nordafricano. Riprende la festa dei Tuareg, si ricollega alla loro musica, ai loro strumenti. È una cavalcata nel deserto».
Dahar, come altri brani del disco, hanno uno svolgimento jazzistico: s’introduce il tema e poi, singolarmente, ogni strumento diventa protagonista di uno sviluppo improvvisativo.
«Sì, l’approccio è jazzistico, alla fine. Scrivo il tema, può durare uno o due minuti, ma poi si ferma il tema e s’inizia a suonare. Tenevo molto a questo aspetto improvvisativo: voglio che ogni concerto sia diverso. Nel “live” c’è l’assolo di pianoforte, poi quello di oud, perché il musicista deve fare quello che vuole, può andare ovunque e gli altri lo devono seguire. Questa è la base del progetto: la libertà del musicista. Anche negli strumenti l’approccio è jazz. È vero che ne ho inseriti molti inusuali, come l’oud, il duduk, però la formazione base è pianoforte, basso, batteria e percussioni».
Nell’insieme, invece, si raggiunge la veemenza e l’energia del rock. Come in Trupea, dove sembra scatenarsi una tempesta sonora.
«È un brano più spinto, lo vedo più vicino al prog. Trupea significa “temporale improvviso” nel dialetto napoletano. Quando vado per mare e facevo regate, a Napoli si dice che quando vedi in lontananza il groppo (le nuvole nere, nda) allora sta venendo a trupea. È un brusco temporale che capita specialmente nel mese delle ciliegie, maggio, infatti si chiama “a trupea de cirase”, durano dieci minuti e poi passano. Il brano viene dopo Janub, che significa Sud in arab, che indica la calma piatta ed è un po’ una introduzione alla tempesta sonora, come l’hai definita».
L’album è composto di sette brani, tutti di lunga durata, che riescono a mantenere la tensione dall’inizio alla fine, senza mai risultare pesanti. Tutt’altro. Come nel caso degli oltre 9 minuti per Migration, che, nell’incedere, sembra raccontare il cammino di una carovana. Si cerca di intravedere in conclusione una luce di speranza, invece è un finale triste.
«Ognuno può dare una interpretazione. Io volevo sottolineare che dopo secoli e secoli ci sono persone che sono costrette ad andarsene da casa per cercare di sopravvivere in un altro posto. È un brano ispirato dal bambino siriano trovato senza vita su una spiaggia, storie ormai di tutti i giorni, delle quali però non si parla. Il finale è triste, perché la situazione non cambia».
Nel disco c’è anche molta Spagna. Sin dal titolo.
«Proprio perché viene da quello, da “Mira Todos”… C’è il pezzo Zefiro, che è un vento che viene da ovest. Quindi, stando in Italia, l’ovest per me è la Spagna. Anche perché io sono un appassionato di flamenco, sono andato a “buscar il flamenco” in Andalusia e qui a Napoli suono con un trio flamenco».
La musica strumentale, come quella che fai tu, trova ostacoli nel suo cammino, fors’anche perché è difficilmente inquadrabile. Non è jazz, né prog, e la world music ha poco spazio in Italia.
«È proprio così. Ma anche nella world music è difficile incastrare questa proposta. I festival cercano il gruppo napoletano, la pizzica, il flamenco, qualcosa di specifico, che faccia guadagnare. Questo mix di suoni e culture, che non si capisce bene cos’è, è difficile collocarlo».
Tu spazi dalla musica al teatro, dal jazz al prog, dalla world alla musica napoletana. Questo progetto solista è un punto di arrivo o di partenza?
«Miradois è un ritratto sonoro, quello che sono stato io in questi ultimi due anni. Poi passerò avanti, il prossimo sarà diverso, spero. È un album che ho fatto per chiudere un percorso, per mettere un punto a un periodo. Adesso riparto».