Disco

Waterboys – “Fisherman’s Blues”

Ogni domenica, segnalisonori dà uno sguardo approfondito a un album significativo del passato. Oggi rivisitiamo un lavoro magistrale dei Waterboys, band che è andata sempre in senso opposto alle mode. In questo lavoro la fusione tra rock e tradizione celtica è perfetta

C’è stato un tempo in cui Mike Scott era veramente un personaggio all’opposizione. Il mondo politico era dominato da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, e lui era dalla parte opposta; la musica pop cresceva sotto il segno dell’elettronica e lui era dalla parte opposta. Per lui e per i suoi Waterboys importanti erano l’impegno sociale e politico a favore di chi aveva avuto meno fortuna nella vita, e il rock e il folk nella musica. All’epoca qualcuno provò ad azzardare che il modo migliore per definire la musica di Scott e dei suoi Waterboys fosse “musica dell’anima”, traducendo impropriamente l’inglese soul music destinato a definire ben altri suoni e culture musicali. Di certo era un buon modo per arrivare ad essere più vicini al mondo personalissimo di Mike Scott, al suo modo di intendere la musica come qualcosa da vivere in maniera diretta, al suo modo di scrivere canzoni e di raccontare storie. Musica dell’anima che in concerto assume quell’elemento di fisicità che è indispensabile per poter essere perfettamente comunicata, e condivisa da altri, in maniera completa. 

A segnare gli anni Ottanta, insomma, non sono stati soltanto i divi della videomusica, quelli dell’elettropop, gli “stadium rocker” come Springsteen o gli U2, gli idoli pop come Madonna o Michael Jackson. Ci sono stati anche loro, i Waterboys, con la loro testarda determinazione ad andare controcorrente, a lasciare spazio all’emozione, a segnare con l’inchiostro del cuore uno spazio che poi, negli anni, hanno saputo difendere con creatività e passione. Non è un caso, in fondo, se la fama dei Waterboys è stata negli anni decisamente maggiore del loro successo commerciale: Scott ha deciso, da subito, di avere con il suo pubblico un rapporto privo di mediazioni e di ottenere, contemporaneamente, dall’industria discografica il massimo dell’indipendenza. 

I Waterboys, al centro con la chitarra Mike Scott

Bandita la spettacolarità, evitate le scenografie elaborate e persino i light show elementari, i Waterboys mettono in scena soltanto la musica, e in questo caso soprattutto quella di Fisherman’ s blues, dove la fusione tra rock e tradizione celtica è più forte ed evidente. 

Fisherman’s blues è l’album più amato dalla band. Fu pubblicato nel 1988, lo stesso anno di Rattle And Hum degli U2, di Surfer Rosa dei Pixies, dell’album d’esordio di Tracy Chapman, e poi della scena house emergente, dei brontolii di Manchester, dell’acid jazz. Tanto per dire che il rock all’epoca aveva una libertà espressiva praticamente infinita. E, infatti, il disco all’inizio non ebbe successo. «Fisherman’s Blues è stato realizzato nel 1986-88, un periodo in cui i musicisti rock di terza generazione, avendo imparato il mestiere ascoltando pop o rock degli anni Sessanta e Settanta, e trovandosi lontani dalle radici originali del rock stesso, sono andati alla ricerca di una risonanza più profonda, di un radicamento più profondo. Da nessuna parte questo sentimento è realizzato meglio che in Fisherman’s Blues, un album intriso di tradizione, ma traboccante della vitalità di una ritrovata rivelazione».

Se il disco non era al passo con i tempi, era al passo con se stesso. Sfido chiunque lo conosca a non provare un’ondata di euforia quando il violino acuto e lamentoso entra in gioco nella traccia del titolo. Fisherman’s Blues comprende canzoni country ortodosse da bere (Has Anybody Here Seen Hank?), stravaganze (And A Bang On The Ear) meditabonde ballate gotiche (Strange Boat), il tutto suonato con sorprendente virtuosismo tecnico e intriso della grande passione tipica di Scott.

L’album offre anche una versione geograficamente localizzata di This Land di Woody Guthrie, ma uno dei risultati più sorprendenti di Fisherman’s Blues è la straordinaria interpretazione musicale della poesia di WB Yeats The Stolen Child. La composizione è pronunciata con l’appropriato accento cadenzato dal tradizionale cantante irlandese Tomás Mac Eoin ed è accompagnata dal ritornello cantato di Mike Scott, e cattura il tono lussureggiante e misterioso della famosa poesia di Yeats sul rapimento delle fate. In nessun album rock è disponibile un’interpretazione migliore di una poesia.

L’album riceve la sua spinta e coesione dalla visione, dalla passione e dall’ingegnoso modo di raccontare di Mike Scott: When Ye Go Away, una storia agrodolce di amore e perdita, riceve un trattamento malinconico e accattivante da Scott ( “Ho qualcosa da dire e altro da raccontare/ e presto le parole mi usciranno dalla lingua / Delirerò e divagherò / Farò di tutto fuorché farti restare…”); mentre And a Bang on the Ear, forse la migliore canzone dell’intero album, è un tour de force di narrazione, una fantasticheria semi-autobiografica sui vari amori della vita di Scott (e come cantante in una band, ovviamente ne ha avuti parecchi), raccontando il suo primo timido incontro con un amore non corrisposto, relazioni andate male (“La casa che ho costruito con Bella è diventata una casa di dolore/ l’abbiamo superata insieme legati da una palla al piede”), fino all’amore finale, culminante della sua vita (fino a quel momento, almeno).

Fisherman’s Blues è il miglior album dei Waterboys, seguito da vicino da This is the Sea e dall’anima gemella popolare di Room to Roam. Tuttavia, non importa quale dei tre si preferisce, dato che il periodo tra il 1985 e il 1990 ha segnato un periodo sorprendente di avventure musicali e creatività per i Waterboys, una band ingiustamente sottovalutata in un periodo di musica che si basava più sull’angoscia e sull’immagine che sulla sostanza. A volte, invece, le cose più semplici della vita sono, davvero, le migliori.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *