Prende spunto da un proverbio siciliano (“Comu na nuci dintra un saccu”) il nuovo album di Giacomo Sferlazzo. Un disco “povero”, chitarra e voce, come l’Alaccia, il pesce sul quale si reggeva una volta l’economia di Lampedusa. E dal mare si alza il canto amaro della voce delle Pelagie: «Ci siamo dimenticati il profumo del sale»
Alaccia centu spini comu rosa, / Saziasti a fami mia e da me casa, / Cu ttia fui patruni d’ogni cosa, / Cu la to carni fatta Lipadusa
Giacomo Sferlazzo – “Alaccia”
L’Alaccia è un pesce azzurro, della famiglia delle sardine. Una volta era molto pescato a Lampedusa. Si usavano piccole imbarcazioni, chiamate ciancioli, perché “armate” del cianciolo, una rete a circuizione che non danneggia i fondali come le reti a strascico. Le barche uscivano al calar del sole con il mare calmo e notti buie: la luce della lampara attraeva il plancton e quindi i pesci che lo cercano per cibarsene. A quel punto i ciancioli accerchiavano il banco di pesce con la rete. Il pesce, immediatamente selezionato dopo la pesca e messo in cassette con il ghiaccio, veniva trasportato al porto per essere subito pulito e messo sotto sale.
«L’Alaccia è un simbolo di Lampedusa, su questo pesce per tanto tempo si è basata l’economia dell’isola», ricorda Giacomo Sferlazzo, cantautore e operatore culturale che sull’Alaccia ha scritto una canzone. «Fino agli anni Ottanta erano almeno una ventina i ciancioli, gli ultimi due sono stati dismessi un paio di mesi fa per essere riconvertiti in barche turistiche per il giro dell’isola. È finito un mondo».
Sulla pesca delle Alacce si reggeva una fiorente industria per la conservazione sotto sale. «Erano almeno quaranta, impiegavano la stragrande maggioranze di donne», continua Sferlazzo. «Oggi ne sopravvivono due e producono pochissimo». L’Alaccia, pesce povero, oggi finisce nelle reti a strascico che raccolgono e confondono ogni cosa. «Per tentare di valorizzarla lo Slow Food ha creato un presidio, ma raramente la trovi a tavola, c’è solo un ristorante a Lampedusa che mantiene la tradizione», è l’amara fotografia del cantautore. «Una volta le polpette di Alaccia rappresentavano il pranzo della domenica, oggi questo pesce è usato come esca».
Ora l’Alaccia pari cosa fitusa / E quannu iemu a fari la spisa / Ca lu carrellu pari a nostra chiesa, / U inchemu chinu ca ci vonnu pusa, / Tri quarti di li cosi su munnizza…
Giacomo Sferlazzo – “Alaccia”
«Oggi riempiamo i carrelli dei supermercati di cose che fanno male. Mangiamo cibi nocivi, chimica, coloranti. Un tempo le donne spinavano le Alacce, oggi vanno tutte di fretta, anche a Lampedusa, dove il turismo e la globalizzazione hanno reso più frenetica e stressante la vita», è il grido d’allarme di Sferlazzo. «La pesca è in crisi, sia a causa delle leggi europee che hanno favorito la grande industria della pesca, sia per le sirene del turismo, lavoro meno faticoso. E poi la nostra atavica incapacità a fare sistema, creando cooperative, a salvaguardare l’ambiente, proteggendo le nostre risorse. Invece abbiamo contribuito a devastare un ecosistema».
Ca Lipadusa ormai esti New York / È china di signura e china e locchi / E ni scurdammu u sciavuru di lu sali / Mi pari ca semu mbarcati mali
Giacomo Sferlazzo – “Alaccia”
È amara la conclusione di Giacomo Sferlazzo nella canzone Alaccia. Lui, come recita il titolo dell’album che pubblicherà questo mese, si sente Comu na nuci dintra un saccu. Riprende un proverbio siciliano: “una noce dentro un sacco non fa rumore” per indicare l’impossibilità di un singolo di farsi ascoltare o di cambiare le cose, specie a livello politico e sociale. «Io mi sono sentito spesso così», confessa il cantautore lampedusano che nella sua isola è una sorta di Don Chisciotte che conduce battaglie culturali e sociali.
Con la voce e la chitarra, però, Sferlazzo ha capito che non è detto che alla fine anche una persona sola non possa fare rumore. “Dici ca na nuci dintra un saccu mancu scrusci / Ma iu la sentu cantari”. E, alla fine, la noce canta, sussurra, urla, sbraita. «Qualcuno deve cominciare a vibrare, con la speranza che altri ti seguano», si augura.
E Giacomo Sferlazzo, “barbudos” di Lampedusa, prova a fare rumore. Tredici brani, chitarra e voce, con i quali evoca Alberto Favara e Giuseppe Ganduscio, ovvero la storia del canto siciliano, il Domenico Modugno “siciliano”, cantastorie come Ciccio Busacca. Un ritorno all’acustico, alla ricerca di sapori, atmosfere e sonorità perdute. “Dammi un pezzu e pani senza nenti ca haiu fami di sapuri anticu e veru”, canta in Quannu si fa sira. «Dopo sei album in cui mettevo, mettevo, arrangiamenti, strumenti, musicisti, ho provato a togliere», spiega. «Mi mancava questa dimensione. È un modo per chiudere un cerchio e ripartire. Cercavo qualcosa di vero, meno artefatto».
Dici ca na nuci dintra un saccu mancu scrusci / Ma iu la sentu cantari
Giacomo Sferlazzo – “Comu na nuci”
Chitarra e voce. Un disco povero, come l’Alaccia, pesce povero, ma ricco di valori nutrizionali. Ed è così Comu na nuci dintra un saccu. Echi di world music, flamenco (L’acqua scurri), kombat folk (U ballu do ribelli), filastrocche (Nun c’è tempu), dolci serenate (Bedda), cantautorato (Quannu si sa sira), melodie. La tecnica del tamburello si combina con la chitarra nell’iniziale Fammi passari e poi nella straordinaria Vita da vita mia, sorta di lamento blues che cresce come un bolero.
Sapori antichi e veri nell’album di Giacomo Sferlazzo, nato ad Anzio «perché a Lampedusa nessuno può più nascere dalla fine degli anni Settanta non essendoci un ospedale», è la sua più grande amarezza. «Sono molto legato a quest’isola e alla mia gente. Tengo molto al parere dei miei concittadini. Qui ci conosciamo tutti e molti mi fermano in strada per congratularsi per Alaccia, il primo brano che ho messo su YouTube. Mi dicono che si rivedono in quella canzone».
Alla fine di febbraio, Comu na nuci dintra un saccu verrà presentato in tour in Puglia, Campania e Calabria, per poi girare in marzo in Sicilia. Nelle tappe oltre lo Stretto, Giacomo Sferlazzo sarà accompagnato da Nicoletto D’Imperio, in arte Kalura, il grafico che ha curato la confezione dell’album pubblicato per l’etichetta siciliana “Suoni indelebili”. «Io mi esbisco come un cantastorie, voce e chitarra, ma senza cartellone», spiega il cantautore. «Il cartellone esplode in tante immagini che Kalura farà uscire, appendendole a un filo, fino a comporre una scenografia: una stampa per ogni brano. In Sicilia sarò solo, ma la scenografia, questa sorta di cartellone destrutturato ci sarà».