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Romanzo criminale al ritmo di rap

Negli Stati Uniti si continua a morire ammazzati nella comunità hip hop, mentre in Italia spesso i trapper non giocano a fare i criminali, ma lo sono, come è accaduto nel milanese. Nelle periferie si combatte la “guerra con la vita”

La dilagante violenza armata nella comunità rap del 2021, quando a fine anno si contarono 14 morti, prosegue ancora. Lo scorso febbraio a New York era stato ucciso in una sparatoria il ventiduenne Tdott Woo, l’inventore del ”Woo Walk”, affiliato alla crew di Pop Smoke. In giugno trentunenne FBG Cash, vero nome Tristan Hamilton, era stato trovato morto dopo una sparatoria a Chicago. Mentre in luglio era stata la volta di JayDaYoungan, conosciuto per i singoli 23 IslandElimination Opps, ucciso in una piccola città della Louisiana. Lo scorso 12 settembre PnB Rock è stato ucciso dopo essere stato derubato, mentre stava cenando in un ristorante di Los Angeles con la sua compagna e sua figlia di due anni. Il cantante, il cui vero nome era Rakim Allen, aveva 30 anni. Secondo la polizia di Los Angeles, PnB è stato preso di mira dopo che aveva condiviso alcune foto con la sua ragazza, Steph Sibounheuan, mentre cenava al Roscoe’s Chicken & Waffles, taggando anche il locale. L’aggressore, secondo la ricostruzione, dopo essersi avvicinato per rapinarlo ha «sparato alla vittima ed è corso fuori dalla porta laterale, salendo da un’auto e fuggendo poi dal parcheggio». 

L’ultimo brano del cantante, Luv Me Again, era uscito il 3 settembre. La sua non era stata una vita semplice: quando aveva 3 anni, suo padre fu assassinato. Cresciuto da una madre single, aveva frequentato un centro di detenzione giovanile quando aveva 13 anni e a 19 anni era stato arrestato per possesso di droga.

PnB Rock è l’ultimo rapper a cadere sotto una pioggia di piombo, la stessa che, maligna profezia, molti esaltano nei loro flow, il fluire di testi che spesso inneggiano alla violenza, alle armi, alla ricchezza esagerata e ostentata. Prima di lui, una lunga scia di sangue ha accompagnato la storia della scena hip hop statunitense. A cominciare da Tupac Shakur, 25 anni sufficienti a trasformarlo nell’interprete più famoso e influente al mondo. Una carriera spesa a raccontare la segregazione, la discriminazione razziale, la vita nel ghetto, come in una delle sue canzoni più famose, Ghetto Gospel, uscita postuma come anche Changes, l’altro capolavoro pubblicato dopo la morte avvenuta il 13 settembre del 1996.

Tupac morì sei giorni dopo un agguato di cui ancora oggi si ignorano i responsabili. Aveva trascorso una serata al casinò MGM Grand di Las Vegas, dove era in programma l’incontro di boxe tra Mike Tyson e Bruce Seldon, poi il trasferimento in auto verso il Club 662 di proprietà della Death Row Records, la casa discografica che pubblicava Tupac e diversi altri grandi nomi della scena rap statunitense degli anni Novanta. Durante il tragitto una Cadillac bianca si avvicina alla Bmw che trasporta Tupac, una dozzina di colpi sparati da distanza ravvicinata e la corsa in ospedale. Meno di una settimana più tardi, la morte.

Se da una parte c’è Tupac, dall’altra c’è Christopher George Latore Wallace III, detto Notorius B.I.G. o Biggie. Entrambi nati a New York. A 17 anni il primo si trasferisce a Marin City, San Francisco. Verso la metà degli anni Novanta si parla di faida tra East Coast, quella di Biggie, e West Coast, quella di Tupac. Tra i due, in verità, inizialmente i rapporti non sono affatto tesi. Poi arriviamo alla sera del 30 novembre 1994. Tupac, con alcuni membri del suo entourage, si stava dirigendo verso i Quad Recording Studios a New York; una volta entrato nella struttura, veniva assalito da due individui che gli rubarono gioielli e contanti e gli spararono cinque colpi di pistola. Nonostante ciò, Tupac fu ricoverato e riuscì a riprendersi. Shakur accusò immediatamente i membri della Bad Boy per l’accaduto, in particolare si scagliò contro la punta di diamante della label newyorkese, The Notorius B.I.G..

Il 9 marzo del 1997, meno di sei mesi dopo la morte di Tupac, a perdere la vita è proprio Biggie. Un agguato che ricorda il primo, con quattro colpi di pistola sparati da un’auto che si avvicina a quella che trasporta il rapper fuori da una festa in quel momento ferma a un semaforo a Los Angeles. Anche in questo caso l’omicidio è tuttora senza colpevoli. Ironia della sorte, viene ucciso poche settimane prima dell’uscita del suo nuovo album, intitolato Life After Death.

Notorius era l’alfiere del gansta rap, un ramo violento dell’hip hop, nato nelle periferie degradate o nelle carceri, figlio del disagio giovanile e familiare, una sorta di valvola di sfogo. Non si tratta più di rapper che giocano a fare i criminali, qualcuno di loro è proprio un delinquente, a vedere la loro fedina penale ci si troverebbe davanti a una lunga lista di reati. Sono delinquenti che fanno anche il rap, un linguaggio perfettamente in linea con il loro stile di vita. E i ragazzini di 13 o 14 anni sono affascinati.

Un fenomeno che sta prendendo piede anche nel nostro Paese, come dimostra la vicenda del rapper Baby Touché, aggredito e accoltellato a Milano. Fra i suoi presunti aggressori un collega, Simba La Rue. Un fenomeno giovanile che mischia i dissing su Tik Tok alle faide per strada che spesso finiscono nel sangue. Dove il trap si mescola con coltelli, pistole, droga. Strappando alla canzone neomelodica napoletana il ruolo di “musica della malavita”.

“Bandolero / Por la calle solamente por dinero / Cocaina brucia come un habanero / È da solo ma sta formando un’impero / Bandolero”. Non siamo a Medellìn, Colombia, né a Tijuana, Messico. Ci troviamo a Catania fra periferie da suburra e una Porta Uzeda che sembra l’arco d’ingresso di una calle della capitale dei narcotrafficanti. E il bandolero, il giovane selvaggio del barrio, è un “ba-ba-bambino che si è rotto già il cazzo”, come rappa in Pregiudicati, il cui video ha superato l’impressionante cifra di 16 milioni di visualizzazioni. E non sono è meno Criminale (9,2 milioni). Il “ba-ba-bambino che si è rotto già il cazzo” si fa chiamare Skinny. È catanese e all’anagrafe è registrato come Noà Magro. Classe 2003, è cresciuto a San Cristoforo, quartiere popolare nel cuore della città etnea, malfamato per diverso tempo. «Tanta gente lo considera difficile, ma io sono orgoglioso di viverci».

Nei suoi brani un lessico da romanzo criminale, che mescola dialetto, gergo della malavita e termini ispanici. Video che attingono a piene mani nell’iconografia trash delle serie televisive sui narcos: armi, fiumi di cocaina, soldi, piscine, sesso. La vita intesa come una corrida. E lui che si definisce il matador, il selvaggio del barrio che spara agli infami, il giaguaro che combatte le pantere (della polizia).

Lo spaccio, la criminalità, le baby gang a Catania, come a Napoli o a Milano o nelle periferie di tutto il mondo, diventano la prima possibilità di emancipazione da una condizione che è di immobilità sociale. In questi luoghi «la guerra con la vita», come la chiamava il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, la conosci da piccolo. Molti bambini crescono senza lo scudo dei genitori, divisi tra carcere e distacco. L’odio nasce dal disagio e l’odio che nutre le periferie di Catania è lo stesso che nutre i ghetti di Napoli, Roma, Londra e Parigi.

Anche Skinny ha avuto problemi con la giustizia: “Catania Sud Italia / Lo faccio per mia mamma / Piangeva in tribunale per la mia prima condanna”, rappa in Siciliano. «Ho avuto dei problemi legali, ma non voglio dargli importanza», ammette. «Ho vissuto un’adolescenza turbolenta. In un certo senso, disagi e influenze negative mi hanno spinto verso la mia musica, che è stato il modo per trovare me stesso e superare quei limiti. Voglio dire che so di cosa parlo nelle mie canzoni, e le mie canzoni servono proprio a questo».

Secondo un sondaggio del Financial Times, la sensazione più diffusa nelle nuove generazioni è il senso di sfiducia che deriva dalla non percezione della meritocrazia, della non differenza di classe e di potere, della non fiducia nel clima e l’ambiente. Giovani che non vedono nel lavoro la stabilità per creare famiglia e soprattutto, giovani che vedono il sesso scollegato dalla dimensione affettiva, e per questo diventa solo istinto da scaricare. 

Il coro dei giovani – secondo la ricerca portata avanti dal Financial Times all’interno di un progetto dedicato alle nuove generazioni – esprime un disagio reale, spesso ignorato e a volte sbeffeggiato. Un disagio esistenziale. Il risultato è una perdita di fiducia e, soprattutto, un’ansia di ribellione. Cresce, difatti, il rifiuto di sottostare alle regole attraverso comportamenti devianti e antisociali. A preoccupare i giovani è anche la traiettoria, poco incoraggiante, della politica che spesso non ha idee, valori e principi ma ama solo il potere.

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