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Ridare una storia ai “paesi invisibili”

Il dibattito sul recupero e rilancio dei borghi in Italia. La “mission” dell’antropologa e archeologa palermitana Anna Rizzo e la sua esperienza sul campo in un centro abruzzese devastato dal terremoto nel 1915. Il punto «non è turisticizzare i paesi, renderli dei fondali instagramabili, creare dei percorsi per assaporare un pezzettino di passato, ma studiarli». «Nei prossimi anni assisteremo alla scomparsa definitiva di un mondo, quello delle aree rurali remote, con cui non siamo più in contatto da tempo». In un libro il reportage dal mondo sconosciuto delle zone interne

Zone interne, soprattutto di montagna. Il termine più usato oggi dai media è quello di borghi. Mete ideali, ma inverosimili, per una fuga dalla città. Dopo la pandemia è diventato di moda parlarne come posti in cui vivere a contatto con la natura. In parte questo è dovuto al senso di isolamento provato durante il lockdown che ha spinto ad immaginare progetti alternativi di vita. Alla base un mix di desiderio e speranza di abitare in un mondo migliore. La realtà è meno idilliaca da come la si dipinge. Più che romantici questi borghi sono dimenticati dalle istituzioni, e da anni oggetto di continuo spopolamento. Conseguenze: scomparsa di attività storiche, artigianali e agricole, perdita di tradizioni e sfilacciamento di rapporti familiari e sociali. 

Il paese di Frattura, quaranta abitanti nel centro dell’Abruzzo, frazione di Scanno (foto di Claudio Mammucari)

Insomma, Paesi invisibili. Come si intitola il volume (ed. Il Saggiatore, 168 pag. 17 euro) della siciliana Anna Rizzo, archeologa e antropologa che le zone interne le conosce bene lavorando da oltre un decennio in progetti speciali di studio e ricomposizione di comunità. Nelle centosettanta pagine, scritte in modo fluido e brillante, reportage dal mondo sconosciuto delle zone interne, punteggiato da aneddoti e racconti personali, Rizzo – che ha presentato giorni fa il libro a Seneghe, in Sardegna, al festival di poesia “Cabudanne de sos Poetas” – rimette con decisione e competenza le cose a posto rivelando situazioni sul cui spesso si chiudono gli occhi.

Ma cosa sono quelle migliaia di agglomerati di case, con le costruzioni in pietra, alcune abbandonate dopo un terremoto o dalla emigrazione? Zone dove per secoli si è praticata l’agricoltura o l’allevamento, lo sfruttamento di miniere ormai chiuse da tempo. Mai al centro di un dibattito politico e culturale, sono spesso vittima di disinformazione. Si ignora ad esempio che sono circa tredici milioni gli abitanti di queste aree. Quasi il terzo di un Paese concentrato in metropoli e città di medio livello. E questi luoghi? Ridotti ad essere poco influenti, paesi fantasmi o invisibili. 

Ogni tanto capita che ci siano degli artisti a segnalarli in festival improvvisati. Marketing e informazione di superficie alimentano così i sogni di chi vuole scappare dalla città tentacolare: ma per fare cosa? Spesso incantati da una pubblicità di imprese che progettano speculazione per vendere nuovo cemento in posti dove occorrerebbe fare ben altro. 

Per Anna Rizzo il sogno di trovare oasi di tranquillità è solo il frutto di campagne mediatiche: con disinvoltura ignorando magari che quei “borghi” tanto osannati non possiedono un collegamento in rete per collegarsi con il resto del mondo e lavorare in smart working guardando dall’alto una incantata valle verde.

Anna Rizzo all’interno di una casa di Frattura (foto di Claudio Mammucari)

Paesi invisibili è un volume terapeutico perché permette, a chi lo legge, di immergersi in una situazione meno romantica ma con tanti buoni motivi per essere salvata. Motivi sentimentali e pure economici. 

Luogo simbolo del racconto di una esperienza che potrebbe essere vissuta in centinaia di luoghi simili è Frattura, quaranta abitanti nel centro dell’Abruzzo, frazione di Scanno, provincia dell’Aquila, paese distrutto da un terremoto, nel gennaio del 1915. L’odierna Frattura è stata ricostruita poco lontana dal vecchio borgo di cui si possono osservare i ruderi. L’antropologa è arrivata qui dodici anni fa a seguito di una missione archeologica della Università di Bologna: “Fluturnum, Archeologia e Antropologia nell’Alta valle del Sagittario”, campagna diretta da Francesca Romana Del Fattore. Da allora la ricercatrice siciliana vi risiede per diversi mesi all’anno: oltre a fare le ricerche, aiuta i pastori al pascolo e condivide il lavoro nei campi. Rizzo descrive le giornate in comunità, raccontando le persone di cui raccoglie le testimonianze. Con alcune è nato un forte rapporto. Come Rosetta, anziana signora conosciuta nel lavatoio della frazione. La squadra di ricerca lo frequentava e così facendo riattivava «un modo di stare insieme e di socializzare che era rimasto silente da anni». Rosetta «era felice e distribuiva mollette a tutti. Fermava le vicine e con orgoglio li mostrava come se fossimo la sua famiglia allargata».

Come Rosetta sono tante le donne orgogliosamente attaccate alle radici che, in luoghi di patriarcato, hanno conquistato spazi organizzando la vita in modo autonomo. Una delle cause fu l’emigrazione degli uomini che diede anche un potente stimolo alla alfabetizzazione. Scrive Rizzo: «Saper leggere e scrivere consentiva di dialogare con il marito lontano; le lettere scritte di proprio pugno potevano avere un tono più intimo e toccare liberamente tutte le questioni familiari, evitando inoltre che difficoltà o insuccessi del marito all’estero diventassero di pubblico dominio in paese». Questo non toglie che non esista una questione femminile nei borghi. «I borghi sono luoghi dove la violenza domestica, verbale, e l’annullamento della femminilità sono instillati fin dalla nascita. L’idea di riscatto passa attraverso la voce di “ribelle”, “puttana”,”ha sempre fatto di testa sua”». Eppure, già alla fine degli anni Cinquanta – rileva la ricercatrice – le prime indagini Istat sulle forze di lavoro constatavano come «a causa del diseguale prelievo compiuto dagli altri settori, l’agricoltura stesse diventando principale appannaggio delle donne, dei vecchi, dei meridionali: ossia gruppi dotati di un debole potere contrattuale sul mercato del lavoro». Fu Corrado Barberis, padre della sociologia rurale, ad individuare e analizzare il fenomeno delle donne sole, delle capofamiglia e delle vedove bianche. Il lavoro agricolo femminile ha un legame diretto con l’emigrazione non certo come vocazione ma necessità economica.

Anna Rizzo e Rosetta (foto di Claudio Mammucari)

La progressiva erosione e lo smantellamento dei servizi pubblici di prima necessità, come l’istruzione, la salute, il lavoro, i trasporti, la possibilità di usufruire di ospedali, non garantisce una effettiva eguaglianza con le persone che vivono altrove

Anna Rizzo

L’archeo-antropologa palermitana abita nei locali della vecchia scuola e del museo etnografico dove gli abitanti di Frattura hanno recuperato un ambiente. Coltiva un proprio orto da cui trae sostentamento. Vede, partecipa e registra. Ad esempio che in borghi come questi sono praticamente scomparsi i medici di base. Le strade restano senza manutenzione, le case e i ruderi continuano ad andare in rovina. Nella introduzione al volume Rizzo lo dice a chiare lettere: «Nei paesi non esistono le donne, gli anziani, i bambini. Non esistono la cura, la prossimità, il diritto. Esiste un’umanità rara e silenziosa che arriva dove i servizi pubblici si interrompono». Una denuncia forte che dovrebbe far riflettere gli amanti dei bei “borghi selvaggi” ma soprattutto chi deve governare il Paese e ha dimenticato le zone interne dove bisogna ripristinare i servizi essenziali.

Anche perché, dice la studiosa «la progressiva erosione e lo smantellamento dei servizi pubblici di prima necessità, come l’istruzione, la salute, il lavoro, i trasporti, la possibilità di usufruire di ospedali, non garantisce una effettiva eguaglianza con le persone che vivono altrove».

Anna Rizzo nel suo orticello a Frattura, dove risiede per diversi mesi all’anno (foto Claudio Mammucari)

Tutto questo fa a pugni con la narrazione recente di giornalisti, sociologi e storici che hanno descritto questi centri «come luoghi di cura, di possibilità o come avamposti di innovazione, legati per lo più alle suggestioni del paesaggio, al senso nostalgico di un passato rurale senza valutare l’effettiva capacità di produrre reddito». Così fa capolino il turismo sotto forma di pacchetti: cioè colate di cemento, disboscamento etc… con il rischio di lasciare nuove macerie.

Un’azione preliminare a qualsiasi progetto di rianimazione deve fare i conti con chi vi abita. L’esempio è quello del progetto di recupero sul quale ha lavorato la stessa Anna Rizzo. La comunità ricostruisce la propria storia, va alla scoperta delle proprie radici restaurando quei legami che davano un senso di appartenenza alla comunità stessa. Le prime direzioni intraprese sono quelle delle residenze d’arte, la scoperta e la difesa delle biodiversità (in questo caso un fagiolo certificato da Slow Food per la sua biodiversità). Da cosa nasce cosa e così anche le idee indispensabili a regalare dignità e futuro.

Dopo aver premesso che «il termine borgo è bellissimo e non va demonizzato», Rizzo spiega che dopo averlo sfinito e logorato adesso il termine “borgo” ricerca purezza, come «se fosse deleterio in sé e per sé, e non vittima di un uso smodato piegato alla necessità di ricevere attenzione, manipolare la scelta di acquisto o raccontare un centro storico». Il punto «non è turisticizzare i paesi, renderli dei fondali instagramabili, creare dei percorsi per assaporare un pezzettino di passato, ma studiarli».

Ogni zona è diversa. Dalle Alpi agli Appennini. Di conseguenza anche le storie dei borghi lo sono. E si devono tenere conto nel momento in cui si pensa a un ripopolamento. Tra questi progetti va citato quello assai valido di Riace curato da Mimmo Lucano, considerato da tanti un modello da seguire, per come è ispirato a principi di solidarietà.

Allevamento di ovini a Frattura (foto Claudio Mammucari)

Attenzione in questo caso a nuove figure di “riattivattori di comunità” specie di community manager formati in corsi durati un amen, magari online. Promotori territoriali che girano per i comuni come nel selvaggio West facevano gli imbonitori per vendere elisir buoni per tutto. Scrive Rizzo: «La visione di queste persone è pericolosa. Viene alimentata dall’approssimazione e dalla faciloneria nel dire che si fa riattivazione urbana e comunitaria, va ad alimentare solo una componente mortifera e malsana, nutre un amore per le cose morte. Non riguarda più l’altro ma se stessi».

I paesi diventano così, in qualche caso, oggetto del marketing editoriale. «Si leggono resoconti di progetti che sono brand personali o sponsor di aziende, senza verificare i contenuti, l’efficacia del progetto, e il coinvolgimento della comunità», scrive Rizzo. Spesso e volentieri invece, in molti dei progetti di recupero le comunità sono assenti, tagliate fuori da discussioni e decisioni. «La crisi narrativa, la mancata contestualizzazione di chi vive il margine, la trasversalità con cui raccontano le Alpi e gli Appennini, così come le isole minori, senza verificare progetti, azioni, e risultati,  al solo scopo di creare palinsesti culturali da vendere, o per riempire programmi di festival, sta danneggiando e occultando la voce dei paesani». Questi ultimi spesso «privi di voce perché ritenuti osceni, impresentabili, incapaci, sempre disponibili, privi di sensibilità e di esperienza».

Un’idea completamente sbagliata è quella che i paesi siano sede di aiuto reciproco e cooperazione. Attenti, anche qui «esiste ancora il privilegio di classe e le gerarchie di dominio». La litigiosità dentro le famiglie è alta per problemi di eredità e talvolta la lite per la suddivisione di uno spazio, un terreno o una stalla può originare dissidi che si trascinano nel tempo. All’interno delle comunità divisioni e differenze di classe di casta si cristallizzano nel tempo, per cui «il figlio di chi raccoglie i limoni, e poi studia ed è qualificato come il figlio del farmacista, rimarrà sempre il figlio di chi raccoglie i limoni. Le sue parole avranno un altro peso specifico, un peso minore. Si resta sempre figli di qualcuno». Insomma, anche se sono borghi di piccola entità è molto complesso avviare processi di ricostruzione.

Occuparsi solo dell’aspetto turistico elude la questione dei diritti. Gli interventi legati alla performance turistica, oltre che generare mostri, generano sfiducia negli abitanti che si sentono sempre più esclusi

Anna Rizzo

Ciò nonostante, osserva la studiosa, queste considerazioni non fanno la differenza. Se ad esempio «i bandi di “Resto al Sud” hanno avuto così tanto seguito, e sono spesso partecipati da persone laureate e diplomate, vuol dire che l’istruzione non basta per fare impresa». Ed è qui che può subentrare la mafia rurale. Per un progetto anche bello ma non sostenuto dalle istituzioni l’investimento richiesto è maggiore. «Qualcosa che rischia di essere predato dalla schiera infame, che si aggancia alla malavita locale, cioè la mafia rurale, che ostacolerà le iniziative solo per mandare il messaggio che ogni paese ha le proprie regole, che se non ungi tutte le ruote, una semplice firma può rimanere ferma anni».

La fontana-lavatoio di Frattura (foto di Claudio Mammucari)

Naturalmente l’esplosione di interesse per i borghi è legata alla crescita di progetti turistici, la maggior parte dei quali non mette nel conto l’enorme carenza di strutture, dalla scuola al centro medico, dalle vie di comunicazione e i trasporti, dalle reti telefoniche a internet.

Rizzo lo denuncia senza mezzi termini. «Occuparsi solo dell’aspetto turistico elude la questione dei diritti. Gli interventi legati alla performance turistica, oltre che generare mostri, generano sfiducia negli abitanti che si sentono sempre più esclusi». È un fatto che nella maggior parte dei casi le comunità non vengano coinvolte.

La via percorribile per iniettare vita nei paesi è quella artistica e culturale, perché il paese per quanto sia in forte spopolamento ha una resistenza molto forte: un nucleo di persistenza che non è stato eroso né intaccato nel tempo. I giovani vogliono rimanere a vivere e costruire il loro futuro qui

Anna Rizzo

E allora? Come scrivere nuove pagine di vita nei nostri borghi?

«La via percorribile per iniettare vita nei paesi è quella artistica e culturale, perché il paese per quanto sia in forte spopolamento ha una resistenza molto forte: un nucleo di persistenza che non è stato eroso né intaccato nel tempo. I giovani vogliono rimanere a vivere e costruire il loro futuro qui». Ma ai giovani deve essere data la possibilità di andare via, studiare e formarsi e magari tornare per costruire programmi di vita e reddito, anche innovativi.

Ma attenzione: sulla strada del ritorno «la corsa al bando europeo o l’incetta dei finanziamenti-manovra ci porteranno ad assistere a una grande speculazione che sottoporrà i paesi a una grande speculazione sociale, predatoria senza esclusione di colpi. Questo atteggiamento predatorio si concretizzerà con l’assalto al finanziamento o con la lezione su come investire i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza». Altra condizione per un rientro attivo delle ultime generazioni, è fare subito «chiarezza su quali siano le condizioni necessarie per continuare a vivere nei piccoli paesi, per creare un indotto lavorativo. Nell’attesa si congela il futuro di molti giovani».

La presentazione del libro a Seneghe, in Sardegna, al festival di poesia “Cabudanne de sos Poetas” (foto di Alice Mastinu)

Poche chance per il futuro prossimo se non interverranno prese di posizione forti e interventi decisi. Anna Rizzo al termine del suo viaggio-reportage propone senza farsi tante illusioni e ideologismi di guardare al domani con maggiore coscienza a quello che è lo stato attuale delle cose. «Cristallizzato in una dimensione neutra, come se tutti i paesi d’Italia fossero il paese, nei prossimi anni assisteremo alla scomparsa definitiva di un mondo, quello delle aree rurali remote, con cui non siamo più in contatto da tempo. Quella modalità di vivere, credere e di andarsene non esisterà più, l’illusione di farne parte, di esserne un germoglio, è solo l’ennesimo storytelling, il racconto di una storia, mentre siamo già altro. Il ritorno è una questione di azioni oltre che di visioni, dal momento che i paesi riproducono l’idea di una nazione attraverso la loro immagine».

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