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Dave Lory: la mia verità su Jeff Buckley

– Pubblicata in Italia “Da Hallelujah a The Last Goodbye”, la biografia scritta dall’amico e manager di una vita
– Un viaggio letterario che coinvolge soprattutto gli addetti ai lavori del suo entourage, dagli esordi fino al tragico ed improvviso epilogo
– Secondo l’autore la morte fu dovuta a un incidente, non a un suicidio: «Aveva semplicemente sottovalutato le conseguenze»
– Figlio d’arte rifiutò qualsiasi paragone: «Non ho niente a che fare con mio padre» ripeteva, rinunciando alle royalties del padre morto

Oggi Jeff Buckley avrebbe quasi 60 anni. Quando se n’è andato, il 29 maggio 1997, inghiottito misteriosamente dalle acque del Mississippi, ne aveva 30 e aveva già lasciato ai posteri alcuni momenti di musica indimenticabile: niente di paragonabile a quel che c’era negli anni Novanta o agli stereotipi rock degli Ottanta. Era figlio di Tim, folk singer illuminato, compositore di talento, genio (in)compreso, ucciso da una overdose di eroina e alcol. 

«Tim Buckley fu per il canto ciò che Hendrix fu per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sassofono». Jeff non incorse nella maledizione che perseguita i figli d’arte. Anzi. Superò in bravura e fama il padre. Jeff era un genio con la voce più evocativa degli ultimi trent’anni. Era sregolatezza, sensibilità estrema, ma anche irruenza. Era tutto quello che fa di un musicista un artista vero, unico. Grace nel 1994 è l’album d’esordio e l’unico ufficiale. Pubblicato nella seconda metà del 1994, è soprattutto l’involontario testamento di un artista straordinario, in grado di realizzare esattamente il disco che aveva in testa, nella sua accezione ritmica, il pop caldo e fuorviante doveva confluire dentro stili musicali ben definiti: folk, hard rock, musica etnica. A fare da sfondo, la voce, capace di lambire gli sconfinati territori frequentati dai grandi del blues e del gospel. Ballate come Lover oppure Ethernal Life ne sono una decifrabile conferma.

Oggi esce in Italia Da Hallelujah a The Last Goodbye di Dave Lory, biografia dedicata al cantautore. Dave Lory, manager e amico di Jeff, rivela al grande pubblico l’universo del musicista statunitense, da una prospettiva unica e privilegiata. Un viaggio letterario che coinvolge soprattutto gli addetti ai lavori del suo entourage, dagli esordi fino al tragico ed improvviso epilogo. Discografici, avvocati, musicisti, fonici, fotografi e tutta la filiera del music biz, contribuisce al libro con un personale aneddoto, una vicenda mai raccontata prima, restituendo al lettore quella che era una figura complessa e controversa.

Lory, assieme al giornalista Jim Irvin, riporta in prima persona le giornate e i viaggi con Jeff. Il lettore vive in prima persona prove, sessioni di studio, contratti e strategie promozionali attraverso il punto di vista tutt’altro che distaccato di Lory. Dettagli, pensieri e preoccupazioni di un manager, la cui figura si andrà ad evolvere nel tempo diventando una sorta di padre adottivo per l’eccentrico Jeff. Quel padre che non ha mai avuto. Proprio il difficile rapporto con il padre o meglio con il paragone che subiva con il genitore Tim, è uno degli argomenti portanti del libro. Amato cantautore che aveva abbandonato lui e la madre in tenera età, per morire poi di overdose. Questo tormentato confronto sarà per sempre uno dei topic della sua vita e della sua carriera.

Jeff Buckley, Anaheim, 17 novembre 1966 – Memphis, 29 maggio 1997

«Non ho niente a che fare con mio padre» ripeteva Jeff, rinunciando del tutto agli assegni derivanti dai suoi diritti d’autore. Un background musicale che spaziava dal metal anni Ottanta alla musica indiana, alla raffinata abilità come chitarrista e come arrangiatore. Se Buckley definiva il musicista pakistano Nusrat Fateh Ali Khan «il mio Elvis», non è un segreto che fosse innamorato della cantante dei Cocteau Twins Elisabeth Fraser, ma non tutti sanno che una volta disse no al suo mito chitarristico Jimmy Page che gli chiedeva di aprire un concerto. 

Le prime esibizioni nei locali, come nel bar irlandese Sin-è a New York che diventeranno le tracce del suo primo EP. L’ingaggio in quel locale, dove lavorava come barista Sinéad O’Connor, fu procurato dal chitarrista dei The Commitments, Glen Hansard. La registrazione di quel disco dal vivo fu realizzata a insaputa del protagonista: il locale fu cablato di nascosto, così Buckley non si sarebbe sentito sotto pressione e avrebbe suonato rilassato.

La vita e la carriera di Jeff erano una altalena di alti e bassi, entusiasmi e delusioni, grandi certezze e improvvisi ripensamenti. Con il primo album Grace il successo di massa arriva in un attimo e da lì il rapporto con i fan e con la fama diventa complesso. In un attimo era sulla bocca di tutti, così Paul McCartney si autoinvitava a un suo concerto, Barbara Streisand lo voleva per un suo film e i Radiohead furono illuminati da un suo concerto per riprendere le registrazioni del loro secondo album The Bends.

Buckley era noto anche per avere la capacità di riprodurre perfettamente con la voce tutto quello che ascoltava, dei colleghi poi riusciva a imitare anche il tono, gli accenti e le cadenze. Una volta durante un concerto cantò Grace esattamente come l’avrebbe interpretata Bob Dylan. Quest’ultimo, informato dei fatti, andò su tutte le furie, nonostante il gesto di Jeff fosse un tributo rivolto al suo eroe.

Le registrazioni del suo secondo album Sketches for My Sweetheart the Drunk, come noto, s’interruppero a causa di un’incidente dove il cantante rimase ucciso. Evento che suscitò enorme scalpore e speculazioni mediatiche in tutto il mondo. L’autore che ha sempre escluso il motivo del suicidio o un abuso di sostanze, ci lascia con una personale osservazione non priva di un velato senso di colpa. Secondo Lory, infatti, il gesto di Buckley non è stato in alcun modo volontario ma semplicemente ne aveva sottovalutato le conseguenze.

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