Disco

Peter Gabriel tra ricordi e il passar del tempo

– A più di vent’anni dal suo ultimo album di inediti, l’ex Genesis pubblica “i/o”. L’insieme dei singoli usciti ad ogni luna piena diventa un’opera d’arte
– Il musicista inglese appare meditabondo, mentre affronta temi come la mortalità e la crisi climatica. Rielabora le sue esperienze passate
– Un disco pieno di idee e di contenuti, che ha avuto una gestazione di ventotto anni e che potrebbe suonare come un gran finale

La domanda che ci si pone subito è se sia saggio pubblicare un album composto da canzoni già liberamente disponibili per lo streaming. In effetti, però, al di là delle modalità del rilascio dei singoli influenzate dal ciclo della luna, i/o è stato chiaramente concepito da Peter Gabriel come un album. 

i/o, input/output. I dati raccolti, elaborati, vengono trasmessi in uscita. Un lavoro con il quale sembra voler ripercorrere la sua carriera, rielaborando tutte le esperienze precedenti con un altro contenuto. Partendo dai richiami ai Beatles in Live and Let Live, per poi accennare al prog rock dei Genesis in And Still tra un pianoforte, un flauto e un violoncello che spruzzano malinconia. Rielabora il sound della Motown in This Is Home, destruttura gli anni Ottanta nel ritmo sinuoso di This Is Home. Il punto culminante potrebbe essere Playing for Time, una ballata che si muove lentamente verso un climax drammatico, in cui esplora i temi della mortalità e del pianeta malato. Il testo presenta Peter Gabriel che scala una collina, come nei testi del suo singolo di debutto da solista, ma questa volta perso nei ricordi e nel pensiero del passare del tempo. Perfetto per un gran finale. 

Certamente i/o è un albun ricco di idee che si sono andate stratificando in ventotto anni di lavorazione. Il decimo album di inediti del musicista inglese, secondo la leggenda, sarebbe cominciato in concomitanza con la produzione del suo precedente album di inediti Up, nel 1995. Programmato per la prima volta nel 2004, due anni dopo l’uscita di Up, rimase nel cassetto. Non per pigrizia, né perché l’ex Genesis è rimasto ad oziare nel suo buen retiro in Sardegna. Tutt’altro. Ha pubblicato raccolte di cover e di sue canzoni ri-registrate con un’orchestra, una colonna sonora del film, il lavoro Big Blue Ball, tre album dal vivo e due compilation, ha fatto sette tour mondiali, co-fondato e venduto una rete di distribuzione digitale, ha contribuito a lanciare l’organizzazione non governativa internazionale The Elders, il “brain-on-music entertainment, media e studio tecnologico” Reverberation e Panopticom. Quest’ultimo è un «mondo di dati incredibilmente espandibile e universalmente accessibile» per il quale la traccia di apertura di i/o funziona come una sorta di jingle, anche se lussuosamente arredata: dura più di cinque minuti, arriva, come il resto dell’album in due mix distinti (uno di Mark “Spike” Stent e l’altro di Tchad Blake) e presenta Brian Eno al synth e il supremo Tony Levin al basso (altri collaboratori nell’album sono David Rhodes, Manu Katché, Ged Lynch, Richard Evans e, in un solo brano, Paolo Fresu).

In tutto questo periodo di gestazione e sedimentazione, l’album si è chiaramente deformato e cambiato. Spesso si legge come una meditazione estesa sulla vecchiaia, un argomento di cui un artista settantatreenne ha tutto il diritto di discutere. Vede in vari casi Gabriel ossessionato dal passaggio di una generazione precedente in And Still, dedicata alla madre Edith morta nel 2016; consapevole della sua stessa mortalità – intrappolato in un corpo che “si attenua, si stanca e fa male nella sua pelle rugosa e macchiata” – su So Much; felice di lasciare che “i giovani si muovano al centro” su Playing for Time e in pace con il suo posto nella struttura cosmica delle cose sulla title track. Anche quando i suoi testi si avventurano negli eventi attuali – Four Kinds of Horses potrebbe essere rivolto al fondamentalismo religioso violento o al populismo di destra e The Court esplora l’effetto di Internet sulla gente – lo fanno dal punto di vista di qualcuno che è in giro da molto tempo: “Ah, dici di essere qualcosa di diverso, ma fai tutto uguale”. È un approccio efficace, ma i/o non avrebbe potuto iniziare così, per la semplice ragione che Peter Gabriel aveva solo 45 anni quando ha cominciato a lavorarci.

Rattopato da sessioni in Gran Bretagna, Italia, Sudafrica, Svezia e sul palco di Rexall Place, una sede dell’arena canadese chiusa cinque anni fa, è un miracolo che i/o non sembri un album rielaborato nel corso dei decenni. Suona ancora fresco mentre tocca, con leggerezza, una varietà di preoccupazioni di lunga data di Gabriel. 

Sentite in una sola seduta, tutte quelle canzoni pubblicate a ogni luna piena, diventano qualcos’altro. Tasselli di una grandiosa opera d’arte.

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