La compositrice, cantante, ballerina, coreografa, regista compie 80 anni e la Ecm ha voluto onorare il suo lavoro pionieristico, che ha ispirato artisti diversi come Merce Cunningham e Björk, con “The Recordings”, un cofanetto che raccoglie tutti i dischi pubblicati per l’etichetta tedesca. «Un giorno, ho avuto questa rivelazione che la voce potrebbe essere come uno strumento. Non dovevo dire parole, e poteva essere maschio e femmina, animale, vegetale, minerale. Potrebbero esserci paesaggi, personaggi, trame»
Meredith Monk ha mappato un mondo che non era mai stato contemplato nella storia delle arti. Allo stesso tempo viscerali ed eteree, crude e rapite, le sue opere bandiscono le complessità spurie della vita urbana e rivelano una sorta di civiltà sotterranea, che canta, danza e medita su forze senza tempo
Alex Ross (The New Yorker)
Compositrice, cantante, ballerina, coreografa, regista, Meredith Monk è una delle figure più visionarie nel mondo dell’avanguardia vocale. Il 20 novembre festeggia 80 anni e la Ecm ha voluto onorare il suo lavoro pionieristico, che ha ispirato artisti diversi come Merce Cunningham e Björk, con The Recordings, un cofanetto che raccoglie tutti i dischi pubblicati per l’etichetta tedesca. All’interno album capolavori come Dolmen Music, Turtle Dreams,Do You Be, Book of Days, Facing North, Atlas, Volcano Songs, Mercy, Impermanence, Songs of Ascension, Piano Songs e On Behalf of Nature.
Nata nel 1942, Meredith Monk è cresciuta nel Queens e Stamford, Connecticut, suonando il pianoforte e prendendo lezioni di Dalcroze Eurhythmics, un sistema che lega l’educazione musicale al movimento. Entrambi i genitori musicisti e cantanti. Si innamorò delle melodie lamentose della musica folk e ha studiato canto e danza. Ma le musiche tradizionali erano insoddisfacenti per lei. E quando si trasferì a Manhattan bel 1964, cominciò a sperimentare le possibilità della sua voce. «Un giorno, ho avuto questa rivelazione che la voce potrebbe essere come uno strumento», ha raccontato. «Non dovevo dire parole, e poteva essere maschio e femmina, animale, vegetale, minerale. Potrebbero esserci paesaggi, personaggi, trame».
Ha iniziato a spingere la sua gamma, emergendo con uno stile pieno di clic, scricchiolii, ululati, esalazioni, vibrazioni e tremori che suonavano selvaggi – «drastici», li chiamava la critica Jill Johnston – ma controllati in modo complesso. Toni sognanti ed eterei, come quelli di Joan Baez o di Joni Mitchell, ribaltati in qualcosa che in parte è un’oscura confessione, in parte un rituale primordiale, come si può ascoltare in Trance, inserita nell’album Beginnings, pubblicato nel 2009 dall’etichetta Tzadik di John Zorn e nel quale sono raccolte composizioni dal 1966 al 1980. Si ascolta la sua gamma sorprendente, alcuni straordinari ululati e incantesimi, salti vertiginosi, cadute, grida e altre acrobazie senza parole. Sono tutte cose che una volta venivano chiamate “tecniche vocali estese”, ma Monk le fa suonare in modo completamente naturale, centrale ed essenziale. Ciò che Monk ha scoperto, e ciò che ha continuato a creare con il suo gruppo di cantanti e strumentisti a New York negli anni Settanta e Ottanta, è stato un tipo di pratica performativa operistica, nel senso di coinvolgimento di diverse forme artistiche: teatro, film, movimento, rituale, mito e arte performativa d’avanguardia. Basta ascoltare e lasciarsi incantare da Dolmen Music, Book of Days o Atlas.
Ma parlare di lei solo come compositrice significherebbe sminuire ciò che fa e come lavora. La musica è solo uno degli elementi con cui lavora, anche se ha composto brani per orchestre come la San Francisco Symphony e gruppi da camera come il Kronos Quartet. Si può parlare della musica di Monk, del suo uso della ripetizione, delle armonie modali, dei suoi vocalizzi spesso muti. Tutto ciò potrebbe allinearla con il minimalismo americano, con la musica folk, o anche come una specie di cugina dei cosiddetti sacri minimalisti d’Europa. Ma la musica di Monk è più ricca e strana di qualsiasi altro. Ascoltate Songs of Ascension, e sentirete antico e moderno insieme. Sembra usare incantesimi che suonano sia come canti semplici sia come melodie orientali. Nella sua musica, tuttavia, non c’è nulla di nostalgico, non è una fuga dal mondo di oggi. Appartiene al presente, perché, come ripete lei, vuole che i suoi pezzi diano ai suoi ascoltatori una visione alternativa di concentrazione e attenzione in mezzo alla velocità sempre crescente del mondo che ci circonda.
Quella di Meredith Monk è una musica di connessione, un processo di fusione di arti che lei ha descritto come un profondo «bisogno psichico» da realizzare. È una visione che è radicalmente opposta alla frammentazione e alla decostruzione che tanti dei suoi contemporanei stavano facendo allo stesso tempo, e il risultato è una musica che è allo stesso tempo profondamente personale, ma che parla in modo semplice e diretto a quelle zone del nostro subconscio che sono le più profonde e le più antiche. Al suo meglio, la musica di Meredith Monk suona come una musica folk per il mondo intero.