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Libri sotto l’albero: Sicilia tra anni ’60 e ’70

“Le lacrime dei pesci” di Massimiliano Scuriatti è un romanzo avventuroso, una storia familiare ricca di colpi di scena e di rimandi al mito e alla storia. Vicende immaginarie, che rinviano a fatti veri dell’intera storia siciliana, quale nodo centrale per comprendere scelte politiche che hanno determinato il percorso spesso drammatico dell’isola, come dell’intera nazione. “Ti ricordi quella strada…” di Salvatore Azzuppardi Zappalà cerca di smontare la definizione di Anni di Piombo con cui sono stati archiviati i Seventies in Italia
Il polo industriale di Augusta

MASSIMILIANO SCURIATTI “LE LACRIME DEI PESCI NON SI VEDONO” (La Nave di Teseo)

La copertina del libro

Dai miti della Sicilia, dalle sue radici classiche, sino ai nostri giorni, ovvero un racconto in prima persona che parte dal 1949, quando l’io narrante ha 13 anni, e arriva a fine anni Sessanta, con l’Italia del boom economico e in rapidissima trasformazione, nel bene e nel male. E il tema del romanzo è proprio questo, un indagare sul rapporto tra l’uomo la natura, l’industrializzazione e il benessere, puntando l’attenzione su un luogo esemplare di quel periodo con tutti i suoi cambiamenti, nella Sicilia meridionale, dove nacque una delle prime raffinerie petrolifere industriali, mutandone sostanzialmente la vita e l’economia.
Siamo da Augusta, nel cui mare la leggenda dice che sono esistite le sirene: siamo un poco più giù e a ovest dello Stretto mitico di Horcynus Orca di D’Arrigo, della Aci Trezza dei Malavoglia con la loro “Provvidenza” che affonda, romanzo che pare, con la sua dichiarazione di intenti verghiana sulle irrequietudini portate dai cambiamenti economici, un po’ il precedente paradigmatico di questo col suo verismo di fondo. Qui il concretizzarsi della provvidenza si rivelerà illusione e naufragio, la nascita della raffineria che porta lavoro e benessere, auto e lavatrici, tv magari ancora presa e vista collettivamente, porterà quel mondo da secoli incontaminato, in cui l’uomo non si misura ma è parte della natura, al naufragio, a esserne vittima e artefice della sua morte.
Perché tutto questo, che è storia, abbia un andamento narrativo coinvolgente Scuriatti ha giustamente scelto di far partire tutto dall’esperienza di un singolo raccontata in prima persona, Vittorio Alicata, col suo difficile crescere, nell’orgoglio di succedere a 13 anni al padre come pescatore con una sua barca personale, nel suo amore e attaccamento per il mare, entrando presto in contrasto anche violento con questo genitore difficile, Biagio Alicata, insoddisfatto, individualista, ribelle che è stato antifascista e ora è noto comunista e senza Dio, malvisto, anche se cederà pure lui alle lusinghe economiche del lavoro nell’industria e, quando riuscirà a essere assunto e penserà di essersi sistemato scoprirà che quel benessere è letteralmente di un regalo avvelenato. E la sua famiglia ne sarà colpita in modo particolare.
A avvelenarsi è innanzitutto il mare, che cambia colore mentre i pesci cambiano sapore e non si vendono più (quei pesci che muoiono a branchi e i bambini si chiedono se sentano dolore. Certo che lo sentono, e allora piangono? «Certo che piangono, solo che le loro lacrime non si vedono, ammiscate, come sono, col mare». Una tragedia che dovrebbe far da campanello di allarme per quel che sarebbe accaduto un po’ in tutta Italia con l’industrializzazione selvaggia, prima davvero senza sapere, poi con la coscienza della gravità delle conseguenze ma, in nome di profitti e del progresso, cercando all’infinito di nasconderle tanto che ancora oggi, in alcuni posti come sappiamo, la scelta è tra avvelenarsi o non lavorare.
Intanto, mentre il suo mondo si modifica e il suo lavoro in barca diventa sempre più difficile, Vittorio cresce, è sveglio, sensibile e entra nelle grazie di un professore di filosofia, Antonio Monaco, che gli dà insegnamenti importanti e gli racconta la realtà dell’isola, il problema grave della mafia, lui che ebbe un nonno padrino sanguinario, tanto da arrivare a uccidere il suo stesso figlio. Allo stesso modo lo mette i guardia dallo spirito fatalista dei siciliani, «che attendono sempre qualcuno li tragga in salvo dalle lor disgrazie» non avendo mai conosciuto e capito cosa fosse la libertà.
Per questo, invece di usare la ragione e non avendo sapienza della realtà delle cose fuori del suo paese, Vittorio un certo momento deciderà di seguire l’istinto, agendo secondo la rabbia e la passione del cuore. Intraprende allora un avventuroso viaggio, prima in treno, poi da Napoli su un camion con frutta e verdura, fino a Milano per parlare col proprietario della raffineria, l’ingegner Castelli (nella realtà Angelo Moratti), che i paesani avevano tempo prima portato in trionfo per le vie di Augusta, e accusarlo delle sue malefatte e danni.
Naturalmente un fallimento, ma anche una lezione per crescere, che lo porta a un ripiegamento su se stesso, alla pacificazione col padre, ma anche a un finale orgoglio d’indipendenza, sapendo ormai che nessun padrone concederà qualcosa ma bisognerà conquistarsi tutto con fatica e dolore.
Tutto è raccontato con una scrittura semplice e rapida, arricchita da qualche termine siciliano e rari echi di cadenza con l’io narrante che spesso è più narratore nella visione generale degli accadimenti in un intersecarsi di realtà storica e finzione nel seguire le avventurose esemplari vicende personali di Vittorio e della sua famiglia.

Una foto simbolo degli anni Settanta in Italia

SALVATORE AZZUPPARDI ZAPPALA’ “TI RICORDI QUELLA STRADA…” (Algra)

La copertina del libro

Non solo anni di violenza, brutalità, attentati alle Istituzioni dello Stato e alla collettività. Non solo Anni di piombo in sostanza, bensì anni che verranno ricordati anche come un periodo di rinascita e di grande, grandissimo splendore e fermento culturale. I Settanta sono da sempre conosciuti e definiti come una fase storica delicatissima, nel corso della quale a farne le spese sono stati rappresentanti politici, membri delle Istituzioni e, perché no, anche gente comune. Ma a Salvatore Azzuppardi Zappalà, validissimo scrittore catanese che quegli anni li ha vissuti in pieno e li ricorda con grande ardore e amore, questa definizione non va proprio giù. E proprio nella sua ultima opera narrativa Ti ricordi quella strada…, un romanzo corale e storico allo stesso tempo, pubblicato per Algra, l’autore etneo rivendica l’idea  che i Settanta siano stati appunto anni meravigliosi. Nel corso dei quali si sono verificate vicende che hanno dato sfondo anche alla sua storia. Un libro in cui a prendere vita è la storia di Lia e Francesco. Un romanzo che, in questo caso, non è solo storico, di formazione e di sentimenti (non sentimentale, però), ma un tributo a uno dei periodi più controversi della nostra storia repubblicana. 

Tutto, stando a quello che si legge dalle prime pagine, è nato dal fastidio che l’autore ha sempre provato nel sentire parlare degli anni Settanta solo ed esclusivamente, come Anni di piombo, come vengono generalmente ricordati. Non furono solo questo e nel libro – narrando la crescita anagrafica e formativo di Francesco – viene evidenziato anche ciò che di positivo quel decennio ci ha lasciato. Furono gli anni dell’impegno, soprattutto in politica e nel sociale, in cui si prese coscienza delle problematiche ambientali e dell’importanza della partecipazione. Furono quelli in cui i giovani italiani cominciarono a viaggiare all’estero e a conoscere e confrontarsi con i loro coetanei degli altri Paesi europei. Furono gli anni in cui l’intrattenimento e il modo di comunicare cambiarono radicalmente, grazie alla nascita delle radio libere, che contribuirono alla diffusione della nuova musica, la musica ribelle, secondo la felicissima definizione di Eugenio Finardi, quella dei cantautori italiani come Francesco Guccini e Francesco De Gregori che sono stati la colonna sonora di quel periodo e lo sono anche di questo libro. 

Furono anche anni di grandi emozioni sportive, come la notte magica del 4-3 alla Germania, il trionfo della Fulvia HF al rally di Montecarlo, quello di Panatta & C. in Coppa Davis e le prodezze di Gilles Villeneuve con la Ferrari. Tutto questo, nel romanzo dell’autore etneo, viene narrato attraverso gli occhi e le esperienze vissute dai due protagonisti, Francesco e Lia, due giovani siciliani quasi trentenni, lui catanese, lei palermitana, che a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta, a Milano, dove entrambi lavoravano, si incontrano, si frequentano e si confrontano. Entrambi sono attenti osservatori di quanto accade intorno a loro, entrambi impegnati nel sociale: lui per l’ambiente, lei nell’assistenza agli emarginati. 

Anche se Francesco e Lia amano la loro terra, della Sicilia si parla solo in un capitolo, e se ne parla sottovoce, senza l’enfasi apologetica o distruttiva a cui siamo abituati. I discorsi sulla Sicilia di Lia e Francesco sono “diversi” perché, come si legge in un estratto del romanzo: «Appartenevano entrambi a quella categoria forse minoritaria di siciliani che pur profondamente innamorati della loro terra, erano consapevoli delle responsabilità che essi stessi avevano nell’averla mantenuta arretrata e succube di scelte fatte altrove. Entrambi si ribellavano a questo stato di cose, e per quello che potevano fare nei comportamenti individuali, ognuno di loro lo faceva, sperando di essere da esempio agli altri e al tempo stesso di far capire ai non siciliani che sbagliavano a generalizzare».

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