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Le sette preghiere di Nick Cave

Due anni fa, al culmine del lockdown, un fan scrisse al sito web “Red Hand Files” di Nick Cave chiedendo le sue opinioni sulla preghiera. Come è sua abitudine con tutti coloro i quali gli inviano una richiesta, l’artista australiano ha risposto, in modo ponderato ed esaustivo. «La preghiera non dipende dall’esistenza di un soggetto», ha scritto. «Non devi pregare nessuno. È altrettanto prezioso pregare nella tua incredulità, come lo è pregare nella tua fede, perché la preghiera non è un incontro con un agente esterno, piuttosto è un incontro con se stessi».

Chiaramente, questo è stato un tema che ha arrovellato Cave durante la pandemia: il nuovo album Seven Psalms contiene sette preghiere, scritte nel 2020, con l’accompagnamento musicale del suo principale collaboratore, Warren Ellis. Rilasciare qualcosa del genere rappresenterebbe una svolta drammaticamente sinistra per la maggior parte dei maggiori artisti rock alternativi, ma Cave non mai evitato la complessa questione della fede. I suoi pensieri mutevoli su Dio sono una sorta di tessuto connettivo che scorre attraverso il suo corpo di lavoro.

Nick Cave e Warren Ellis

La sua ossessione per quello che chiamava il «Dio maniacale e punitivo» dell’Antico Testamento ha fomentato l’ammutinamento in paradiso, con la sua caotica fusione di dipendenza da eroina, assoluzione e angeli caduti, e Tupelo del 1985, una riproposizione della nascita di Elvis Presley come un incrocio tra un evento apocalittico e la natività. La sua successiva scoperta del vangelo di San Marco – dove, disse, vide Cristo raffigurato «in un deserto dell’anima … consumato dalla frustrazione e dalla rabbia», in contrasto con «l’individuo bagnato, tutto amorevole» della sua educazione anglicana “decaffeinata” – sembrava essere alla base di The Boatman’s Call del 1997, un album che vedeva Cave contorcersi in un’agonia romantica e spirituale. Più recentemente, l’approccio alla fede che ha espresso sia in The Red Hand Files sia nel suo recente tour che lo scorso giugno ha fatto tappa a Taranto ha contribuito ad alimentare Ghosteen, probabilmente il più grande lavoro della sua carriera e indiscutibilmente un album di straordinaria profondità e potenza emotiva.

In confronto a GhosteenSeven Psalms è una versione minore: 25 minuti – di cui la metà consumati da una versione strumentale delle sette brevi tracce sul lato uno – messi in vendita insieme a matite, biglietti di auguri e un maglione per i piccoli cani che portano la leggenda Suck My Dick sul sito web di merchandising di Cave. Sembra un po’ un’aggiunta al Carnage dell’anno scorso, anch’esso caratterizzato da voci che si avvicinavano alla parola parlata, Cave che incantava con i suoi testi tanto quanto li cantava sullo sfondo in costante mutamento di Ellis.

Seven Psalms porta questo aspetto dell’approccio di Carnage all’estremo. Ellis fornisce momenti discreti di sintetizzatore, pianoforte e voci in gran parte mute. Tutto è intriso di riverbero tranne la voce di Cave. L’atmosfera viene spogliata della propensione di Cave per i giochi di parole. Ci sono alcune immagini vivide, non ultimo la rappresentazione in Such Things Should Never Happen di un uccello che muore e una madre che piange «accanto a una scatoletta», nulla però di lontanamente simile alla frase di Carnage sull’essere «una Venere Botticelli con un pene».

Le parole affrontano il tema della perdita, del perdono e, spesso, dell’idea di pregare fino all’incredulità. In I Have Trembled My Way Deep e in How Long Have I Waited?, Cave chiede un segno – «sono rimasto sulla soglia della tua meraviglia, fammi entrare» – mentre la musica di Ellis, che di tanto in tanto può salire a crescendo trionfanti, si trasforma cupamente, come a sottolineare il senso di incertezza. A volte, si ha la sensazione che gli eventi attuali possano essersi intromessi nei pensieri di Cave. Non è difficile immaginare Splendour, Glorious Splendor come un ringraziamento per i disordini civili scoppiati in seguito all’omicidio di George Floyd: «Il mondo esplode sorprendentemente per mano tua… una bombola del gas gira, sibilando per la strada». È un Cave nella sua forma più personale, che rifiuta di nascondersi dietro personaggi inventati, implora perdono in Have Mercy on Me: «Ho trattenuto il neonato morto sugli scogli, flagellato le città, gettato al freddo le famiglie, rovesciato tutti gli orologi che avanzavano».

È un album estremamente potente – Cave ed Ellis sono scrittori superbi, al top della loro creazione – anche se di difficile ascolto. E ci si chiede quanto spesso lo ascolterai. Qualche fan ha già espresso la propria contrarietà: «Per l’amor del cazzo, basta con le stronzate di Dio e di Gesù!», ha protestato sul sito Red Hand Files. E Cave ha risposto anche a questa lamentela in modo ponderato, con la calma e la pazienza di un artista che è consapevole che da tempo cammina da solo, occupando uno spazio del tutto unico, facendo cose che nessun altro fa, controcorrente.

La copertina dell’album “Seven Psalms”

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