Storia

Le mani, lo zen e i quadri di Alberto Abate

Dieci anni fa moriva il pittore romano, d’origini e crescita catanesi. Il racconto di un incontro fra l’arte pittorica e la fotografia, chiave, la seconda, per entrare nell’immaginario dell’artista che negli anni Cinquanta aveva frequentato l’Istituto d’arte etneo

Con occhi profondi, come sempre, io con Alberto Abate seduti a parlare, ma con lo sguardo attento. Intorno a noi, rigogliosi e vivi, i secolari alberi della villa Bellini di Catania, e noi seduti su una panca in ferro a discutere del catalogo in lavorazione, come impaginare le foto dei quadri, l’inserimento del papà e dello zio nel contesto generale, le presentazioni, ed altro ancora. Lui sempre elegante, giacca camicia, cravatta il fazzoletto in evidenza dal taschino. Io un po’ più casual, capelli rosso mogano e lunghi, barba fluente e rossa, carnagione chiara quasi a non voler dichiarare la mia nascita sicula. Dopo aver abbandonato i discorsi sul lavoro da farsi ci siamo ritrovati a parlare di un argomento che ambedue cercavamo di approfondire da molti anni e risalente a incontri dialettici e di pensiero con incipit verbale già dal 1970. Ogni qualvolta che ci si incontrava trovavamo importante affacciarci a questa finestra filosofica e disquisire sull’argomento più importante delle nostre vite e dal quale, forse, scaturivano intenzioni e ispirazioni artistiche.

Un quadro di Alberto Abate (1946-2012) tra i principali esponenti della corrente artistica della pittura colta
Alberto Abate

I pensieri che ci turbinavano in mente erano legati a una parola composta da sole tre lettere, ma carica di significato e storia di oltre duemila anni: ZEN, il pensiero orientale, e a volte nelle nostre discussioni contrapposto a quello occidentale, L’Arte del vuoto mentale zen di D. T. Suzuki o Dove il tempo finisce di J. Krishnamurti. Di questa filosofia di pensiero così antica e radicata in oriente, e che per noi era linfa vitale, riuscivamo a parlare per ore senza fermarci, sviscerandolo, e, come un tesseract, riuscivamo a coglierne i colori e tagli diversi pur affacciandoci sempre dalla stessa finestra. La quarta dimensione o forse più si palesavano a noi in continuo mutamento facendoci balenare in mente idee strane o solo stravaganti ma sempre interessanti. Ricordo che quel giorno proprio lui dopo aver parlato dell’antroposofia di Steiner mi parlò di “devachan”, questo luogo virtuale dove lo spirito dei morti soggiorna prima di rimaterializzarsi in un corpo fisico, in attesa di…. Quel che distingue il mondo spirituale dal mondo fisico è che al suo attuale grado di evoluzione l’uomo è provvisto di organi che percepiscono il fisico ma non di organi in grado di percepire lo spirituale. Immergiamoci nell’anima di un essere umano che si trovi tra due incarnazioni, ecco il luogo “devachan”. Fu da questo concetto che ad Alberto venne l’idea di farsi fotografare nel luogo della loro famiglia, a casa dello zio Alessandro e in cui viveva ancora la zia, la moglie, in via Carmelo Abate 12 (via dedicata al papà di Alberto) così (diceva lui) da poter cogliere lo spirito del papà ma soprattutto dello zio mettendo insieme lui, la zia, fisicamente, e solo spiritualmente lo zio Alessandro. Così come poi avvenuto negli scatti fotografici che io stesso ho realizzato e quasi come un momento taumaturgico abbiamo elaborato e poi realizzato questa scena in cui gli elementi sono stati pensati e disposti in modo che potessero dare l’angolazione giusta per visionare e prendere coscienza delle presenze in quella stanza e con quei personaggi e quegli oggetti appositamente presenti nello scatto.

L’ambientazione nasce in via Carmelo Abate, la stanza è la stessa che si può notare nel quadro realizzato dallo zio Alessandro e rappresenta la moglie (li presente fisicamente) nell’atto di suonare il piano per due amiche che stanno sedute (nel quadro) in fondo alla sala, stessa sala e pianoforte riconoscibili in alcuni miei scatti. L’elemento che doveva risultare il più vitale di tutti era lui, vicino alla zia già avanti negli anni, vicino a quel pianoforte dove lei aveva suonato tante volte e che il marito Alessandro aveva voluto immortalarla in quella sala di casa Abate. Ed è qui che, mentre seduti parlavamo di come dare vita a questa idea, Alberto mi esternava la sua idea. Ma io lasciai le sue parole in secondo piano, a brusio della lingua, e volutamente, ricordando Roland Barthes, volli lasciare il linguaggio parlato in uno spazio neutro intorno a me, per meglio concentrarmi (forse complice la bella luce pomeridiana) sulle mani di Alberto, che usava con forza e vivacità così come faceva sempre, ma adesso mi accorgevo sempre più del suo gesticolare, di queste mani e gesti nervosi a volte vicino al parossismo ma che lui azzerava stringendo i pugni e poi riaprendo le mani, si erano creati dei controluce stupendi, le sue mani, e in fondo, nello spazio di cielo visibile, ancora un poco prima che l’azzurro lasciasse del tutto la tavolozza al dorato del tramonto, quelle mani trasudanti di vita artistica e umana mi balenavano davanti a costruire immagini metafisiche che quasi in un crogiuolo di tante idee prendevano forma ed emergevano al mio sguardo imprimendosi nella mia mente quasi a farmi capire di più e li capii che era nata una ispirazione. 

Le mani (foto di Enrico Guarrera)

La sera, dopo essermi lasciato con Alberto e preso appuntamento per l’indomani, a casa mia nel ricomporre tutto il materiale fotografico in mio possesso, improvvisamente, ricordando ciò che era accaduto prima con la luce del tramonto dorato, ecco una illuminazione. Mentre guardavo i quadri di Alberto, tra la metafisica dell’immaginario, riferimenti storici, familiari, esoterici e mitologici, ecco comparire in modo forte, vibrante e immaginifico le mani che si interscambiano tra maschili e femminili. Nei suoi soggetti vi erano le “sue mani”. Ero emozionato, avevo scoperto nei quadri dell’amico Alberto Abate le sue mani, quelle che solo qualche ora prima mi avevano ispirato. Freneticamente ho riguardato tutte le foto dei quadri, ma ora evidenziando solo le mani, ingrandendole, poi con cambi di luce, ma sempre mi riportavano a lui, a quel pomeriggio primaverile di Catania. Da quel momento non smisi più di pensare alla realizzazione di un lavoro in bianco e nero che evidenziasse le sue mani. Da lì nacque il progetto che avrei realizzato da lì a breve nel suo studio romano.

Oggi quelle mani mi parlano di lui e mi fanno rivivere i momenti passati insieme e mi fanno pensare più che mai a quel “nostro” luogo “devachan”, in attesa di… 

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