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«Le canzoni? Valgono più dell’oro e del petrolio»

Dopo Dylan, Springsteen e molti altri, anche i Pink Floyd trattano la cessione dei loro archivi. Sarà un accordo finanziario a riconciliare Rogers Waters e David Gilmour dopo 35 anni di conflitti? La corsa ai cataloghi delle rockstar è un fiorente mercato gestito da una società inglese fra i cui azionisti ci sono anche la regina Elisabetta e l’arcivescovo di Canterbury. È un affare «perché la musica non è correlata a ciò che sta accadendo sul mercato. La musica viene sempre consumata», spiega Merck Mercuriadis, “mente” di questo nuovo business

Nemici da 35 anni, da quando nel 1986 Roger Waters, leader prolifico e dispotico dal 1968, dopo che il fondatore Syd Barrett fu licenziato per i suoi problemi mentali, fino al 1986, quando sciolse i Pink Floyd e cominciò la battaglia legale per il marchio. Roger Waters contro David Gilmour, Pink contro Floyd. Divisi da tutto, anche dalla Guerra (Gilmour e Waters ora si scontrano sulle loro posizioni politiche: il primo canta la resistenza in Ucraina e il secondo incolpa la Nato per quel conflitto). Non dai soldi. È in corso, infatti, un accordo per la vendita del formidabile catalogo di canzoni della leggendaria band per circa 500 milioni di dollari (una cifra simile in euro). Un sorprendente colpo di scena per risolvere un conflitto duraturo. Un accordo nello stile di quello che hanno fatto altri personaggi della musica come Bruce Springsteen o Bob Dylan che, per cifre simili ai 500 milioni, hanno ceduto i loro archivi. E dopo di loro, a cascata, tante altre star della musica si sono affrettate a mettere all’asta i propri cataloghi: Paul Simon, Tina Turner, Sting, Joni Mitchell, Dire Straits, Shakira, Red Hot Chili Peppers, Mötley Crüe, Bon Jovi, David Bowie (ceduto alla Warner dagli eredi per 250 milioni di dollari). Sono passati di mano gli archivi di Bob Marley e Whitney Houston (comprati da Primary Wave, gruppo nato nel 2006 acquistando da Courtney Love il 50% delle canzoni dei Nirvana). Neil Young ha ceduto la metà dei diritti d’autore e delle royalties di circa 1.180 canzoni incassando 50 milioni di dollari, ma altre fonti arrivano a 100. Ancor prima c’erano stati Stevie Nicks, che in cambio di 100 milioni di dollari ha venduto l’80% della sua musica, i Fleetwood Mac, Blondie, Barry Manilow e molti altri ancora. I Pink Floyd avrebbero messo all’asta i diritti sulle loro canzoni al miglior offerente: come riportato da Bloomberg a giugno, i membri della band stanno negoziando con Sony, Warner e BMG tramite lìagente Patrick McKenna. Il Financial Times ha rivelato la scorsa settimana che anche il gigante Blackstone è in gara.

David Crosby

Non posso lavorare, e lo streaming mi ha rubato i soldi dei miei dischi. Farò anch’io come Dylan. Ho una famiglia e un mutuo, e devo occuparmene perciò è la mia unica opzione. Penso che anche gli altri siano nella stessa situazione

David Crosby

La pandemia ha cambiato il modo di vedere le cose. Le vendite di dischi sono diminuite, lo streaming non compensa le perdite, e l’industria dei concerti è in stallo. Così, a 60 o 70 anni, molti artisti pensano al momento in cui non avranno più l’energia o la salute per ripartire in tour. Vendono i loro diritti per assicurarsi un futuro tranquillo. «Non posso lavorare, e lo streaming mi ha rubato i soldi dei miei dischi», si lamentava su Twitter David Crosby, uno dei più celebri artisti rock degli anni Sessanta e Settanta. «Farò anch’io come Dylan. Ho una famiglia e un mutuo, e devo occuparmene perciò è la mia unica opzione. Penso che anche gli altri siano nella stessa situazione».

Vendere il proprio catalogo musicale significa vendere i diritti d’autore sulle proprie canzoni e quindi i proventi che ne derivano, da quelli delle singole riproduzioni in streaming a quelli degli utilizzi nei film, negli spot e nelle serie tv, passando per le cover suonate dal vivo, le trasmissioni in radio. Possedere un catalogo significa anche poter pubblicare nuove edizioni dei dischi o raccolte. Attraverso gli enti che raccolgono i proventi nei singoli Paesi – in Italia prevalentemente la Siae – le royalties rappresentano la principale fonte di guadagno per gli artisti.

La Iconic Artist Group ha messo le mani su un nome che da solo evoca un mondo: i Beach Boys. Potremmo presto vedere ristoranti o parchi a tema a loro nome, e la cosa non spaventa i superstiti della band, anzi. «Magari fra cinque anni potrete infilarvi i visori per la realtà virtuale» aveva suggerito in un’intervista l’amministratore delegato della Iag, Oliver Chastan, «e andare a vedere i Beach Boys mentre registrano Good Vibrations negli studi della Western Recorders, che sono ancora lì: potremmo scannerizzarli in 3D».

Merck Mercuriadis, l’Elon Musk della musica, figlio di un calciatore greco, canadese di nascita, sulla copertina di Forbes

La musica di questi tempi è un investimento più stabile dell’oro. Le canzoni di successo restano affidabili nei loro flussi di reddito

Merck Mercuriadis 

Prima di scandalizzarsi però, è bene capire, come puntualizza Gianluigi Ledda che dirige a Milano gli archivi di un editore musicale storico, Ricordi, che la musica era un business considerato moribondo e che ora invece attrae capitali neanche fosse oro. Anzi, «di questi tempi è un investimento più stabile dell’oro», come ama ripetere Merck Mercuriadis, l’Elon Musk della musica che ha intercettato la congiuntura favorevole tra costo bassissimo del denaro e boom del digitale in musica. Le canzoni di successo restano «affidabili nei loro flussi di reddito», spiega Merck Mercuriadis al quotidiano britannico The Guardian.

Figlio di un calciatore greco, canadese di nascita, 56 anni, Mercuriadis è un veterano della musica. Vive a Londra, dove ha trascorso quasi quaranta anni operando nell’industria musicale come manager di artisti di successo a livello mondiale, come Elton John, Guns N’Roses, Morrissey, Iron Maiden e Beyoncé. Poi ha deciso di applicare gli insegnamenti di sir Richard Branson, il bizzarro e geniale patron della Virgin, dove iniziò a lavorare, fondando la Hipgnosis Songs Fund Limited, una società quotata a Londra che compra canzoni a peso d’oro, offrendo agli investitori la possibilità di guadagnare con i diritti d’autore generati da queste migliaia di brani.

Lanciata tre anni fa, la compagnia ha speso circa 700 milioni di sterline, accumulando i diritti di oltre 13mila canzoni. «La musica vale quanto l’oro e il petrolio, forse anche di più», spiega la “mente” della Hipgnosis. Dopo l’acquisto dei cataloghi di Leonard Cohen, Nile Rodgers, Justin Timberlake, Nelly Furtado, a mettere le mani sui diritti della band di The Dark Side of the Moon è proprio la Hipgnosis Song Management su cui Blackstone ha investito un miliardo di dollari proprio per condurre acquisizioni di questo tipo.

I fondi di investimento, che ora stanno comprando, probabilmente tra un paio di anni rivenderanno tutto. Anche David Bowie lanciò a metà anni Novanta i “Bowie bond”, quotando i diritti delle sue canzoni presenti e future. Ebbe ottimi rendimenti all’inizio, ma sulla lunga il modello non ha funzionato. Bowie fu seguito da altri artisti, tra cui Iron Maiden e James Brown. Quando però il mercato dei dischi cominciò a dare segnali di crisi, i proprietari dei “Bowie bond” videro svuotarsi il loro serbatoio di investimenti. Altro famoso investimento nell’archivio di un artista fu nel 1985 l’acquisto di 250 canzoni di Lennon-McCartney da parte di Michael Jackson come parte di un accordo da 47,5 milioni di dollari.

Con lo streaming, che dà nuova vita al settore dopo oltre un decennio di vendite di cd, e con la pirateria in calo, la musica ha ripreso il suo fascino. Un fascino antico, che sa di archivi polverosi, ma ancora attuali e remunerativi.

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