Venerdì 22 settembre esce “Dedicato a noi”, album con molti riferimenti a precedenti lavori. «Riparto dalla coppia di “Salviamoci la pelle” per attraversare uno dei periodi peggiori che ricordi chi ha la mia età e chiudere con un senso di speranza». «Sono un cantautore con il suono di una band». In tour dal 9 ottobre: partenza da Verona per chiudere a Messina
«In tempi in cui sempre di più l’ascolto generico sembra orientato verso la singola canzone, in molti si chiedono: “Ha ancora senso scrivere e pubblicare un album?”. Per quanto mi riguarda la risposta è sì», riflette Luciano Ligabue. «Da quando, più di trent’anni fa, ho avuto la fortuna di potere scrivere e pubblicare il mio primo, non riesco a farne a meno e anche se resto un appassionatissimo tifoso della “canzone a sé”, è attraverso la completezza di un album che sento di riuscire a esprimere quello che voglio e devo. È andata così anche stavolta in cui, fra la trentina e passa di canzoni che ho scritto, man mano se ne sono fatte largo undici sia per il loro singolo contenuto che per il quadro d’insieme che compongono».
Dedicato a noi è il titolo di questo quadro d’insieme. Uscirà venerdì 22 settembre e sarà l’asse portante della scaletta dei concerti del tour che il Liga intraprenderà dal 9 ottobre: partenza dall’Arena di Verona per arrivare a Messina il 30 novembre e l’1 dicembre.
Dedicato a noi è un album che parte dal passato, dal 1991, da una strofa di Lambrusco, coltelli, rose e pop corn, il secondo album di Luciano. Introduceva la storia di una coppia di ventenni che scappavano da un paese, dalle loro famiglie e da un destino che sembrava inevitabile. La canzone è Salviamoci la pelle. «Quella pelle da salvare che cantavo dobbiamo continuare a salvarcela anche oggi», sottolinea il Liga.
Più di trent’anni dopo, il rocker di Correggio ha voluto aprire questo suo nuovo album “andando a vedere” come stanno oggi i protagonisti di quella canzone. I due ragazzi sono cresciuti, hanno cinquant’anni, hanno già figli indipendenti e devono «fare i conti con il presente che viviamo».
«L’inizio di questo decennio è il peggiore che si ricordi da chi ha la mia età (che di decenni ne contempla un po’)», commenta il sessantatreenne musicista. «Alla pandemia, alla guerra in Ucraina, agli effetti sempre più disastrosi del cambiamento climatico, si è aggiunta un’estate di terribile cronaca nera. Ci sarebbe altro da aggiungere a questo drammatico elenco ma mi fermo cercando piuttosto di sottolineare una delle sue conseguenze: viviamo una maggiore fragilità sociale. Ecco: come ci si comporta quando aumentano le paure, gli egoismi, le tensioni reciproche? Quando si perdono dei punti di riferimento? Immagino che le risposte possano essere diverse per ognuno, ma in Dedicato a noi ho provato a raccontare dove sto cercando le mie».
Quel “noi” che a volte pare raccontare l’unione fra l’artista e il suo pubblico, a volte rappresentare la sua cerchia d’amici, altre volte, invece, sembra mettere insieme chi condivide le stesse priorità. Un “noi” non recintato né troppo definito, che sembra piuttosto avere dietro un grande “ci siamo capiti”, lasciando così all’ascoltatore la libertà di riconoscersi o no. Il “noi” a cui Luciano fa riferimento in questa canzone – che non a caso dà il titolo all’album – è probabilmente lo stesso di quello cantato in Non è tempo per noi ma con una minore amarezza. “Dedicato a noi / alle facce che ci han dato / a quelle che ci son venute / a quelle che faremo qui da adesso in poi”, canta.
«Quel “noi” che voglio pensare abbia in comune lo stesso insieme di valori, speranze, dubbi e convinzioni», sottolinea l’autore. «Quel “noi” che nonostante i colpi subiti continua a rigirarsi le maniche. Quel “noi” che non si preoccupa, né mai lo ha fatto, di sentirsi “fuori moda, fuori posto, insomma sempre fuori, dai”. A quel “noi” questo album è “dedicato”».
La frustrazione e la disillusione verso diversi aspetti che ci riguardano, fanno presagire ombre cupe sul “futuro in costruzione”. Fra guerre e questione dei migranti, disuguaglianze sociali, negazionismo climatico, la canzone Niente Piano B sembra cominciare con un andamento folk-rock ma poi marcia spedita, tirata da una ritmica trascinante. Il curioso vocalizzo di Luciano a inizio pezzo (deng-deng-deng-dong) evoca il suono di una campana, come se si trattasse di una chiamata generale: “Il tempo sta scadendo / per restare fermi qui qui qui qui qui / siamo noi quel piano B».
Al passato, ad Hai un momento, Dio?, sembra riportare anche Chissà se Dio si sente solo. Come nel brano contenuto nell’album Buon compleanno Elvis del 1995, il nuovo tende a “umanizzare” la figura di Dio, come per sentirlo più vicino. E il pezzo tende ad assumere l’aspetto di un’invocazione: “Chissà se Dio si sente solo / qui sotto la paura rende soli più che mai / chissà se Dio si sente solo / se gli bastiamo / se gli manchiamo”.
I punti di riferimento Ligabue li va a cercare «stringendomi sempre di più a chi ho vicino, affidandomi alla memoria (ma cercando di non indulgere troppo in facili nostalgie), accendendo di nuovo (e comunque, diciamolo, testardamente) un senso di speranza e di appartenenza».
La speranza è affidata a una coppia di diciottenni: un lui e una lei dei giorni nostri. Due ragazzi con l’adolescenza segnata dalla pandemia e dalle sue conseguenze sociali. Due giovani che raccolgono il testimone lasciato dalla coppia di Salviamoci la pelle: “Non ti porto sulla luna / lì ci vai da sola te / quindi allaccia la cintura / se vuoi stare qui con me / sarà pure un film già visto / ma le star qui siamo noi / se scommetti su una notte / è stanotte più che mai”, canta il Liga in “gergo springsteeniano” (leggi Thunder Road) in Stanotte più che mai.
L’album si chiude con Riderai, con un incitamento alla «speranza che deriva dal buon senso». «Quante volte ci siamo sentiti dire: “Di tutto questo un giorno riderai”? Quante volte le nostre preoccupazioni si sono rivelate infondate? Quante volte, nonostante averlo visto sulla nostra pelle, passiamo ad altre preoccupazioni che a loro volta si dimostreranno inutili?».
Anche in studio Ligabue si stringe a chi ha vicino: suo figlio Lenny, oltre a suonare la batteria e ai cori, è assistente alle registrazioni. Il suono resta il solito: un basso, una batteria, due chitarre, tastiere, in poche parole, «un cantautore con il suono di una band, come è sempre stato».