– La cantautrice milanese con il singolo “Verso casa” chiude il cerchio con l’alter ego Anna Cacopardo, il suo vero nome. Una sorta di canzone manifesto della Gen Z
– Nel suo universo ci sono Lucio Dalla (da una sua canzone ha preso il nome d’arte), Paolo Conte, John Lennon, l’indie pop, ma soprattutto i conflitti della sua generazione
– Il clamoroso exploit in duetto con Fedez con “Le feste di Pablo” strozzato dall’avvento della pandemia. «La nuova canzone segna l’inizio di un nuovo viaggio»
Anna Cacopardo è la farfalla che corre dietro al vento in Cara, la canzone di Lucio Dalla da cui ha preso il suo nome d’arte. Per i suoi pochi anni “e per i miei che sono cento non c’è niente da capire, basta sedersi ed ascoltare”. «Sono una bimba, ho due treccine, sono un tormento / Sulle ginocchia ho i lividi», canta dolcemente in Verso casa, il suo nuovo riflessivo singolo tra l’indie pop e il naif, che potrebbe essere la canzone manifesto della generazione Z.
Il cognome tradisce origini siciliane («mio nonno era di Calatabiano, tra Catania e Taormina»), ma Cara è una ventiquattrenne milanese, cresciuta a Crema fino al diploma liceale, per tornare poi a vivere all’ombra della Madonnina. Studi di musica, a 19 anni il primo singolo Mi serve. Un indolente e sensuale cocktail di ritmi caraibici e citazioni (“Un po’ di Africa in giardino” fra Celentano e Paolo Conte), frutto di ascolti variegati che mescolano il cantautorato nazionale ai nuovi protagonisti della scena musicale internazionale. Decolla con mezzo milione di stream. Mica bruscolini.
E che la ragazza abbia talento se ne accorge uno che sui “talent” ci lavora: Fedez. «Sono andato a lavorare in un piccolo studio alla periferia di Crema», scriveva al tempo il rapper sui social. «In questi mesi sono tornato a fare musica come quando avevo 18 anni, senza pensare troppo alle conseguenze strategiche. In studio ho incrociato una giovane artista emergente che stava registrando una sua canzone: “Ti spiace se provo a scriverci una strofa?”».
Da questo incontro fortuito nasce il duetto Le feste di Pablo, titolo dalle vaghe reminiscenze degregoriane. «Pablo è un po’ tutti e un po’ nessuno», spiega lei. «È l’ascoltatore che, alla fine, chiude il cerchio. Può essere l’amico che beve la birra vicino a te sul divano oppure lo sconosciuto che passa per strada. Lascio il mistero, mi piace che siano le persone a trovare il loro Pablo».
È una coinvolgente e allegra canzone che mette insieme il mondo fantastico di Cara: Yoko Ono, John Lennon, Gino Paoli, Glovo, SuperBowl, sushi, cibo messicano, Ibiza e Pablo che “ti dà una busta che non pesa come quella della spesa”. Ed è boom: quasi 27 milioni di stream su Spotify.
Era il 2020: l’urlo di gioia viene strozzato dall’esplosione della pandemia. Che tarpa le ali alla farfalla alzatasi per prendere il volo.
Non poter sfruttare quell’improvviso successo è un dramma. Cara evita i talent show, ma tenta senza fortuna la carta Sanremo attraverso i due diversi contest per l’ammissione. E per la prima nuova produzione bisogna aspettare quattro anni. Anche perché è difficile riprendere da quelle vette da capogiro, quando le aspettative tue e di chi ti sta intorno crescono.
«Ho pubblicato un EP e qualche singolo, ma, in effetti, diciamo che da un anno e mezzo o due mi sono presa una pausa perché avevo bisogno di mettere ordine», racconta Cara. «Mi sono comunque dedicata molto alla musica, ho lavorato in studio. Non mi sono presa una pausa per la paura legata a quel momento, dove sicuramente c’è stata una esposizione di una certa importanza, semmai è stata legata a una questione emotiva e anche artistica».
La canzone “Verso casa” sembra una sorta di fuga dalla metropoli. Vuole esprimere il desiderio di tornare a Crema, alla tua infanzia?
«Quando scrivo mi piace sempre lasciare uno spazio per chi ascolta. Penso che ognuno abbia la propria idea di casa, che può essere un luogo ma anche uno stato d’animo. Nel mio caso, faccio riferimento a uno stato d’animo, a un modo di essere: il ritrovare un modo di vivere più vicino a quando si è bambini, a quando si guardano le cose con stupore. Nella vita mi è capitato di affrontare varie fasi di percorso e questo ritorno verso casa è come tornare al mio centro, che è la parte più ingenua, più incontaminata».
Perché la realtà con la quale ti sei scontrata è stata problematica?
«Tutti nel proprio percorso abbiamo dei conflitti. Verso casa è una canzone che parla di conflitti, ma anche di approccio alla vita. La musica sicuramente mi ha creato una sorta di rifugio, mi porta ad immaginare molto e quando rimetto i piedi a terra è sempre complicato. Ma, a volte, devo ricordarmi di poggiare i piedi a terra e di confrontarmi con la realtà che, anche per il mio modo di essere, è problematico».
Ha ragione Fulminacci che in una intervista ha detto: Forse la nostra generazione ha veramente la sindrome di Peter Pan»?
«Sì, è anche vero. Penso, però, che ognuno abbia il proprio approccio alla vita. Per me l’immaginazione è importante, perché mi permette di fare musica, di vivere come piace a me. Però sì, in effetti, c’è un aspetto generazionale».
Qual è il tuo rapporto con Milano? La metropoli “che sta impazzendo”, come canti in Verso casa, o la Las Vegas d’Italia come la definisci nel brano cantato con Fedez Le feste di Pablo.
«Milano ha tanti aspetti che mi piacciono, altri un po’ meno. Non sopporto la fretta dei milanesi. Sembra che la città non possa concederti una pausa. È anche metafora di un contesto sociale e di un periodo storico nel quale viviamo: andiamo un po’ tutti di fretta, ci sentiamo in ritardo e questo ci fa perdere il focus sulle cose belle della vita. Milano che corre è l’immagine che ho usato delle persone che corrono sotto la pioggia con l’ombrello e poi ci sono io che invece sono lì sotto la pioggia e guardo, immagino, sogno e vivo nel mio mondo e me ne frego di bagnarmi».
La riscoperta della lentezza. Che è tipica dei siciliani. Quindi, di tuo nonno.
«Penso che la lentezza possa insegnare molto. A me fa bene prendere i miei tempi. Fa sì che io caschi di meno in certe trappole mentali. Cerco sempre di ritrovare il mio fuoco, il mio centro, e questo mi fa stare a posto con me stessa».
Verso casa sembra chiudere in qualche modo un loop fino ad ora irrisolto. “Sotto quei portici / Ero io a urlare / Anna non ti fare più del male”, canti in chiusura.
«È più che altro un dialogo a tu per tu con il proprio io, in cui ognuno può rivedersi apertamente. Con Verso casa ho cominciato un nuovo viaggio che apre la strada a tanti altri brani. Il filo conduttore tra tutti è un momento preciso, che si può ripetere in più fasi della vita, ma che segna sempre un prima e un dopo. È il momento in cui ti accorgi che hai sofferto, ma adesso hai un piede fuori dall’acqua, quindi ci vedi più chiaro. Ti guardi indietro e ripercorri quello che è stato. È il momento in cui ti dai una pacca sulla spalla, e per me sono rari quei momenti, ma sempre molto importanti. Ho scritto e sto scrivendo tanti brani diversi, anche a livello di sonorità, ma quella nota di malinconia dettata da una rinascita, penso ci sia in tutti quanti. Sarà un percorso graduale verso l’album. Questo è un primo passo».