Esce “But Here We Are”, un album influenzato da due perdite devastanti: quella della madre e dell’amato batterista Taylor Hawkins. Un disco straziante, disordinato, sincero, meraviglioso. L’epopea di “The Teacher, brano di dieci minuti pieno di riff in più parti e cambi di tempo
«Avevo una persona che amo / E proprio così, sono stato lasciato a vivere senza di lui», balbetta Dave Grohl nell’acustica The Glass: è la canzone-chiave dell’undicesimo album dei Foo Fighters, But Here We Are.
Segna il ritorno in studio della superpotente rock band americana dopo la morte improvvisa dell’amico più intimo di Grohl, il collega batterista, compagno di band e alter ego Taylor Hawkins, 50 anni, inghiottito dal tunnel della droga nel marzo dello scorso anno. Una tragedia seguita quattro mesi dopo da un altro devastante lutto: la scomparsa della madre di Grohl, Virginia, 84 anni. Non sorprende, quindi, che la perdita e il dolore siano al centro dell’album più succinto e intenso dei Foo Fighters.
Vale la pena notare che i Foos sono nati dalla perdita e dal dolore, quando il suicidio di Kurt Cobain dei Nirvana nel 1994 costrinse il loro potente batterista a lasciare la seconda linea per diventare un frontman e debuttare con le sue canzoni, in cui suonava tutti gli strumenti. La band di Grohl è poi cresciuta di numero (attualmente sono sei membri) ed è andata alla conquista degli stadi.
Come frontman carismatico, dalla voce grezza e rude, Grohl ha modellato la sua immagine su un’ampia gamma di elementi classici del rock e del pop, dove i Black Sabbath incontrano i Kiss e gli Hüsker Dü ballano con i Bon Jovi. Tutti messi dentro un potente frullatore insieme alla spavalderia tipica di una band heavy rock. I Foo Fighters sono stati molto divertenti nel corso degli anni, ma ci è voluta una tragedia per spingerli verso qualcosa di più vitale. Dal punto di vista dei testi, But Here We Are potrebbe non essere particolarmente profondo – proiettare la perdita piuttosto che indagarla – ma è sincero.
Dave Grohl è tornato dietro alla batteria nella traccia di apertura Rescued con un vigore fisico che minaccia di trasformarsi in una fuga precipitosa. Le chitarre ululano a piena potenza, mentre la voce di Grohl è un ruggito urlante: «È arrivato in un lampo / È venuto fuori dal nulla / È successo così in fretta / E poi è finita». Ma invece di immergersi in un puro dolore metal, la canzone cambia marcia per un sorprendente ritornello: «Stiamo solo aspettando di essere salvati».
Anche nella disperazione, Grohl non ha rinunciato alla sua abile capacità di mettere insieme diversi elementi della musica, uno stile di composizione che agisce simultaneamente sulla sezione ritmica e sulla melodia. È il caso di The Teacher, un’epopea rock lunga dieci minuti, la canzone più lunga che la band abbia mai registrato, accompagnata da un cortometraggio diretto da Tony Oursler. È piena di riff in più parti e cambi di tempo: un’apertura eterea con Grohl che canta dolcemente: «Posso sentire quello che fanno gli altri / Non posso fermarlo se lo volessi». Poi un’esplosione rock che richiama Paul McCartney e i Wings nella loro forma più epica, con il fantasma di John Bonham che sfonda i contorni del soft rock, e uno splendido finale che trae una forte influenza da The Cure. «Prova a fare del bene con l’aria che resta / Contando ogni minuto, vivendo respiro dopo respiro», canta Grohl prima di una jam rumorosa che suona come la fine del mondo, urla di “arrivederci” e calma improvvisa.
Il disco trasmette la stessa urgenza del feroce Wasting Light del 2011 con la band alla ricerca di una rumorosa catarsi in ogni traccia. Ci sono un sacco di assoli di chitarra. Il surf rock di Under You è una delle canzoni più immediate che abbiano mai pubblicato. La band non ha paura di avventurarsi in un territorio inesplorato, con Nothing At All che attinge a un elegante groove pop e Beyond Me che sembra trarre ispirazione dai momenti più teneri degli Oasis. Show Me How offre morbide armonie soft rock a Grohl per duettare tristemente con sua figlia adolescente, Violet, su un groove sgangherato che richiama alla mente i Soundgarden nella loro forma più cupa. La fragile Rest, acustica e non urlata, sembra una ninna nanna alla Sparklehorse finché la band non entra con una tale forza da farti saltare in aria.
But Here We Are è disordinato, straziante, ambizioso e meraviglioso, mentre i restanti membri dei Foo Fighters si spingono al limite e oltre. Ed è un innegabile promemoria del potere curativo e unificante della musica.