– Alla scoperta della “verde frontiera tra il suonare e l’amare” cantata da Paolo Conte in “Alle prese con una verde milonga” e scandagliata venerdì sera a Catania dal formidabile ensemble di Daniele Sepe
– Atahualpa Yupanqui, nome d’arte di Hector Roberto Chavero Aramburo, è stato il padre della nueva canción sudamericana, da Mercedes Sosa a Victor Jara
– Studiò le tradizioni indigene dell’Argentina e nelle sue canzoni cantò gli ultimi, gli emarginati. Vicino alle idee comuniste, fu perseguitato e costretto a cercare rifugio in Europa
Così la milonga rivelava di sé / Molto più, molto più di quanto apparisse / La sua origine d’Africa, la sua eleganza di zebra / Il suo essere di frontiera, una verde frontiera / Una verde frontiera tra il suonare e l’amare / Verde spettacolo in corsa da inseguire / Da inseguire sempre, da inseguire ancora / Fino ai laghi bianchi del silenzio / Finché Atahualpa o qualche altro Dio / Non ti dica: “Descansate niño / Che continuo io”
“Alle prese con una verde milonga”, Paolo Conte
E, allora, caro Paolo Conte, cediamo il passo ad Atahualpa, che lei aveva avuto modo di ammirare al Premio Tenco l’anno prima di scrivere Alle prese con una verde milonga.
Atahualpa Yupanqui. Un nome che ci fa immaginare una divinità Inca. E, in effetti, è la combinazione dei nomi di due leggendari re Inca. Significa in quechua: “Persona che viene da terre lontane per raccontare qualcosa”. È il nome d’arte scelto da Hector Roberto Chavero Aramburo. Padre proveniente dall’Argentina, madre discendente dai Paesi Baschi, nacque a Pergamino, una provincia a circa 200 chilometri da Buenos Aires, il 31 gennaio 1908 e da lì girò tutta l’America meridionale e il mondo. Professione folclorico, ovvero cantautore popolare, cantastorie, folclorista, studioso di tradizioni popolari, e magistrale chitarrista. È considerato il padre di gran parte della musica sudamericana, da Mercedes Sosa (che nel 1977 avrebbe registrato un album in cui interpreta le canzoni di Atahualpa Yupanqui) a Jorge Cafrune, e poi il peruviano Manuel Silva, il cubano Silvio Rodriguez, l’uruguagio Daniel Viglietti, fino ai più famosi Violeta Parra e Victor Jara. Tutti folclorici citati dal formidabile ensemble di Daniele Sepe venerdì sera durante il concerto tenuto al Teatro Sangiorgi di Catania.
Uno spettacolo, quello del sassofonista napoletano, che è stato un viaggio simile a quello affrontato da Atahualpa Yupanqui nell’America del Sud più indomita, ribelle, indigena, resistente, quella che ha mantenuto una propria identità culturale difendendola strenuamente dai colonizzatori spagnoli e portoghesi, dalle politiche culturali imperialiste, dal rock’n’roll e dalla Coca Cola. L’America Latina dei rivoluzionari Simon Bolivar, Emiliano Zapata, Ernesto “Che” Guevara. Dei campesiños e dei folclorici. Quella pura, vera, non quella drogata dei narcos che oggi influenza ramificazioni del rap, né quella vuota del reggaeton o quella mercificata dei Latin Grammy.
È il Sudamerica di Atahualpa Yupanqui, “una verde frontiera tra il suonare e l’amare”. Quello citata anche da Francesco Guccini nell’album Canzoni da osterie con El caballo negro.
Furono gli inizi da muleteer, che è quello di consegnare merci con il mulo, a farlo innamorare dei viaggi. Che, a poco a poco, sarebbero diventati più di un semplice lavoro. Trascorse molto tempo nel nord-ovest dell’Argentina e nell’Altiplano studiando la cultura indigena amerindia. Fu durante questi viaggi che avrebbe imparato ritmi come la zamba, la vidala, la milonga e la chacarera, che in seguito avrebbe reso popolare nelle sue canzoni.
Durante questo periodo, il giovane Atahualpa entrò in contatto con le ideologie comuniste. Nel 1931 prese parte alla fallita rivolta dei fratelli Kennedy, che lo costrinse a cercare rifugio in Uruguay. Yupanqui non sarebbe tornato nella sua terra natale fino al 1934.
La fede comunista ostacolò il suo lavoro, specialmente durante la presidenza di Juan Peron. Il lavoro del musicista fu in gran parte censurato e Atahualpa fu persino detenuto e incarcerato in molte occasioni. Sentendosi perseguitato, fuggì in Europa tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta.
Caetano Veloso ha detto che Atahualpa aveva «la voce della terra appena seminata». Silvio Rodriguez ha detto che è «il padre della canzone latinoamericana» Una notte del 1950, a Parigi, il poeta Paul Eluard lo invitò nel suo appartamento. «Porta la chitarra», lo avvertì. Lì incontrò Edith Piaf, che lo invitò a condividere il palco dell’Olimpia, con queste parole: «Vi presento Atahualpa Yupanqui, un musicista di grande talento, al quale lascio chiudere lo spettacolo. Voglio che lo ascoltiate come merita».
«Atahualpa Yupanqui è il primo grande folclorista impegnato in America Latina, quindi la conoscenza del suo lavoro e della sua traiettoria è inevitabile», si legge sulla tesi di master all’Università del Cile sul folclorista argentino e Violeta Parra. «Yupanqui si è impegnato nel mostrare ai suoi compatrioti, comunisti e non, l’esistenza di un’Argentina indigena che è, da un lato, il legame che il Paese ha con il mondo andino e, dall’altro, la porzione della società nazionale più impoverita ed emarginata».
Atahualpa tornerà poi in Argentina, ma soltanto come un passaggio fra un viaggio e l’altro. Durante il 1963 e il 1964 Atahualpa gira la Colombia, il Giappone, il Marocco, l’Egitto, Israele e persino l’Italia. Nel 1967 aveva anche girato la Spagna e decise di stabilirsi a Parigi. Quando la dittatura militare di Jorge Videla prese il controllo del Paese nel 1976, le sue visite a Buenos Aires divennero più rare.
Nel 1989 l’Università di Nanterre, un’istituzione prestigiosa, gli chiese di scrivere i testi di una Cantata per commemorare il bicentenario della Rivoluzione francese. Atahualpa accettò e produsse una composizione intitolata La Sacra Parola, un omaggio a tutte le città oppresse che si liberarono durante la rivoluzione. Atahualpa ha registrato oltre 12mila canzoni, molte delle quali sono su etichette che non esistono più, e sono introvabili. Morì a Nimes, in Francia, nel 1992, all’età di 84 anni.