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Chris Blackwell, il re Mida della discografia

Mentre i suoi artisti parlano ad alta voce, l’85enne fondatore della Island Records è rimasto sempre silenzioso. Adesso, in un libro di memorie, racconta come è riuscito a portare la musica di Bob Marley, U2 e Grace Jones nel mondo

Nel 1955, Chris Blackwell era un ricco inglese di 18 anni la cui famiglia faceva parte dell’élite coloniale della Giamaica. Disperso e assetato a bordo del suo motoscafo rimasto senza benzina, si imbatté in un uomo rastafari, un componente di quello che allora era un gruppo di emarginati temuto dagli anglo-giamaicani come minacciosi “uomini dal cuore nero”. Invece, per il terrorizzato Blackwell, si rivela la sua salvezza. L’“uomo nero” lo portò nella sua comunità, offrendogli cibo, acqua e un posto dove riposare. Quando il giovane visitatore si svegliò, trovò i suoi salvatori che leggevano la Bibbia.

È la parabola con cui si apre il libro The Islander: My Life in Music and Beyond, storia di Chris Blackwell, il re Mida della discografia. Quell’incontro rappresentò un punto di svolta per Blackwell, aprendogli un percorso straordinario attraverso la musica, con la Giamaica al centro. Grazie a lui il reggae si diffonderà in tutto il mondo, e quando la sua Island Records fondata nel 1959 è cresciuta fino a trasformarsi in un mini-impero transatlantico di rock, folk, reggae e pop, Blackwell è diventato un modello per etichette indie agili ed eclettiche.

«Sono cresciuto tra i neri. Ho passato più tempo con i neri che con i bianchi perché ero figlio unico ed ero malato. Erano il personale, i giardinieri, gli stallieri. Ma ho avuto modo di preoccuparmi molto di loro e ho avuto modo di riconoscere quanto fosse diversa la loro vita dalla mia», racconta oggi a 85 anni.

Quando gli è stato chiesto perché avesse fondato l’Island, ha detto: «Non si trattava di Chris Blackwell che faceva un disco di successo o qualcosa del genere. Stavo davvero cercando di elevare gli artisti».

Sebbene appartenga alla stessa generazione di impresari musicali come Berry Gordy e Clive Davis, che per decenni si sono presi cura della loro reputazione pubblicamente, Blackwell è forse il più timido e meno conosciuto tra i cosiddetti “uomini del disco”. Come capo dell’etichetta o produttore, è sempre rimasto nascosto dietro alla musica che ha definito l’era di Cat Stevens, Traffic, Roxy Music, B-52, Steve Winwood, Grace Jones, Robert Palmer, Nick Drake, Tom Waits, Tom Tom Club, Bob Marley e U2.

«Non è un’esagerazione dire che Chris ha offerto un modello di comportamento ad alcuni di noi», ha scritto Bono degli U2. «Ricordo che una volta mi disse: “Cerca di non buttare il tuo successo in faccia a persone che non hanno tanto successo. Cerca di essere discreto”. Le sue maniere perfette e il tremolìo della sua voce non sono mai stati percepiti come sincere. Invece, era se stesso in ogni momento».

Paul Morley, il giornalista musicale che ha scritto il libro The Islander con Blackwell, ha detto che è stato solo dopo che Blackwell ha venduto l’Island alla PolyGram nel 1989, per quasi 300 milioni di dollari – ora fa parte del gigantesco Universal Music Group – che ha iniziato a mostrare un po’ di interesse a rivendicare il suo posto nella storia. «A Chris piace stare sempre in sottofondo», ha sottolineato Grace Jones, che ha pubblicato il suo primo disco Island nel 1977. «Sono persino sorpresa che abbia fatto il libro».

Nato nel 1937 da una famiglia che aveva fatto fortuna in Giamaica coltivando canna da zucchero e producendo rum, Blackwell è cresciuto sull’isola tra ricchi britannici e celebrità in vacanza. Sua madre, Blanche, era amica di Errol Flynn e Noël Coward. Ha anche avuto una relazione di lunga data con Ian Fleming, che ha scritto i suoi romanzi di James Bond nella tenuta GoldenEye, che Blackwell ha poi acquistato trasformandola nel primo boutique hotel giamaicano. Alla fine degli anni Cinquanta, Blackwell fu coinvolto nel nascente business pop giamaicano, fornendo dischi a jukebox e operatori di “sistemi audio” per feste da ballo all’aperto. Presto iniziò a produrre dischi in proprio. Nel 1962, si trasferì a Londra e iniziò a concedere in licenza singoli ska, il frizzante e ottimista predecessore del reggae.Nel 1964, ha ottenuto il suo primo successo con My Boy Lollipop, un pezzo di due minuti di squisito skabblegum cantato da un’adolescente giamaicana, Millie Small. La canzone arrivò al numero 2 in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e riuscì a vendere più di sei milioni di copie. Blackwell rimase inorridito dal modo in cui la popolarità aveva trasformato la vita di Millie. Tornata in Giamaica, sua madre sembrava riconoscerla a malapena, trattandola come una regina. «Cosa avevo fatto?» si chiedeva Blackwell. Giurò di non inseguire più i successi pop.

Poco dopo il suo successo con Millie, Blackwell vide lo Spencer Davis Group, il cui cantante, il giovanissimo Steve Winwood, «sembrava Ray Charles sotto l’elio». Nel 1967, Blackwell affittò un cottage per la nuova band di Winwood e sembrava contento di seguire quello che inventavano lì: nascevano i Traffic.

In The Islander, Blackwell sorprende quando confessa di aver rinunciato a mettere sotto contratto i Pink Floyd «perché sembravano troppo noiosi», scrive, e Madonna «perché non riuscivo a capire cosa diavolo potevo fare per lei». Tra gli aneddoti che si trovano nel libro, alcuni riguardano gli U2. Si legge, ad esempio, che quando Bono & soci cominciarono a lavorare al loro quarto album, The Unforgettable Fire, la band voleva assumere Brian Eno come produttore. Blackwell, pensando a Eno come un avanguardista, si oppose all’idea. Ma dopo averne parlato con Bono e Edge, accettò la loro decisione. Eno e Daniel Lanois hanno poi prodotto The Unforgettable Fire e il suo seguito, The Joshua Tree, che trasformarono gli U2 in superstar globali. «Quando ha capito il desiderio della band di svilupparsi e crescere, di accedere ad altri colori e stati d’animo, si è tirato fuori da un momento di confronto che si è rivelato cruciale per noi», ha spiegato Bono. «La storia rivela di più sulla profondità dell’impegno di Chris nel servirci e non il contrario. Non c’è mai stato bullismo».

La copertina dell’album “The Joshua Tree” degli U2

La relazione artistica più affascinante di Blackwell è stata quella con Bob Marley, nei confronti del quale ha usato una mano più pesante e ha avuto un impatto maggiore.

Sebbene negli anni Sessanta, la Island avesse distribuito singoli dei Wailers, la band di Marley con Bunny Livingston e Peter Tosh, Blackwell non li incontrò fino al 1972, dopo che il gruppo terminò un tour britannico ed era rimasto senza soldi per poter rientrare in Giamaica. Fu subito colpito dal loro carisma. «Sembravano dei re, piuttosto che dei falliti», ricorda. Blackwell consigliò loro che, per essere suonati alla radio, dovevano presentarsi non come una semplice band reggae ma come un “gruppo rock nero” e inseguire “ragazzi del college” (codice per un pubblico bianco della classe media). Blackwell ricorda che Livingston e Tosh erano scettici, ma Marley era incuriosito. I tre registrarono in Giamaica le basi delle tracce del nuovo album, ma Blackwell e Marley rielaborarono i nastri a Londra, portando in studio musicisti bianchi come il chitarrista Wayne Perkins e il tastierista John Bundrick. Nacque così Catch a Fire, la pubblicazione reggae dal suono più sofisticato del suo tempo.

Blackwell e la Island continuarono a modellare il suono e l’immagine di Marley su un pubblico bianco. Nel libro, Blackwell scrive di aver dato il compito a Dave Robinson della Stiff Records, “arruolato” dalla Island in seguiti alle scarse vendite del catalogo di Marley. L’intento era quello di perfezionare i brani, favorendo canzoni edificanti e limitando i testi più conflittuali. Il marketing dell’album Legend, che includeva un video con Paul McCartney, minimizzò la parola “reggae”. Funzionò: Legend è uno degli album di maggior successo di tutti i tempi, vendendo 27 milioni di copie in tutto il mondo. E non ha cancellato l’eredità di Marley come rivoluzionario.

La figlia di Marley, Cedella, che gestisce l’azienda di famiglia come amministratore delegato del Bob Marley Group of Companies, non ha avuto lamentele. «Non puoi rimpiangere Legend», ha detto in un’intervista. «E se vuoi ascoltare l’amorevole Bob, il rivoluzionario Bob, il giocoso Bob, è tutto lì».

La copertina di “Legend” con la tracklist

Gli ultimi capitoli del libro sono i più drammatici. Blackwell racconta come, a un certo punto, la carenza di flusso di cassa non consentì all’Island di pagare le royalty degli U2. Fu così costretto a cedere alla band il 10% dell’azienda, che fu poi costretto a vendere in seguito a sbagliate decisioni commerciali.

Negli ultimi anni, dopo aver venduto la maggior parte dei suoi interessi musicali, Blackwell si è dedicato alle sue strutture ricettive in Giamaica. «Adesso promuovo il Paese, come facevo prima con gli artisti», spiega. «Ogni miglioramento o ritocco a GoldenEye, ad esempio, è come un “remix”. Io amo la Giamaica. Amo i giamaicani. I giamaicani si sono presi cura di me. E mi sono sempre detto che qualunque cosa avessi potuto fare per aiutarli, l’avrei fatto».

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