La cantautrice debutta con l’album “Féssë a cchi muόrë” dopo essersi specializzata al CET di Mogol: «Lì ho capito cosa non volevo: la canzonetta». La riscoperta delle radici e il modello di “guerrigliere culturali” come Mercedes Sosa e Violeta Parra. Un disco “glocal” nel quale Cappuccetto rosso diventa lupo per ululare alla luna l’esistenza della Lucania, di un popolo, di una terra, di una cultura. Nel segno del cantautorato femminile e della world music
Non ha la stessa voce portentosa, ma Chiara D’Auria è la Mercedes Sosa della Basilicata. È voce della terra. Una voce che conserva la memoria di un luogo martoriato dai terremoti e dimenticato. «La Basilicata esiste. È un po’ come il concetto di Dio. O ci credi o non ci credi», scherzava, ma neanche tanto, Rocco Papaleo quando fece conoscere al Paese la sua regione con il film Basilicata coast to coast, ancor prima che l’Europa rivelasse al mondo Matera come capitale culturale.
Chiara D’Auria è una insegnante di materie umanistiche, da alcuni anni emigrata a Milano come tanti docenti meridionali in cerca di punteggio. «Ma il prossimo anno spero di tornare a casa». Che sta a Tito, un paesino di poco più di 7mila anime in provincia di Potenza, nascosto nell’Appennino lucano, lontano da qualsiasi rotta turistica. Uno dei tanti centri sconvolti dal terremoto che nel 1980 devastò l’Irpinia e la Basilicata.
Chiara D’Auria è anche una cantautrice, forse la prima in Basilicata. E, per affrontare seriamente questo secondo impegno, nel 2021 si è specializzata al CET (Centro Europeo di Toscolano) di Mogol. «Un’esperienza che è stata importante per capire cosa non volevo fare», sottolinea Chiara. «Ho imparato come scrivere una canzone, il metodo. Allo stesso tempo certe logiche di mercato alle quali non intendevo aderire. Quindi l’allontanamento dalla canzone destinata al mercato».
Chiara torna sui suoi passi, riprendendo quei brani soltanto abbozzati in dialetto prima di sperimentare altri percorsi, fra cui quello del CET. «Ho cominciato ad ascoltarmi», racconta. «Mi sono riavvicinata alla mia cultura, al mio intimo, nella lingua della mia anima che è il titese, ed ho cominciato a scrivere una canzone dopo l’altra».
Nasce l’album Féssë a cchi muόrë, ovvero “Povero chi muore”, «nel senso di morte spirituale», precisa l’autrice. «Il terremoto è il filo conduttore dell’album. Povero chi muore è quello che muore da spettatore, invece bisogna tremare come la Basilicata. Io ho senso se ho coscienza della mia storia. Non si deve rimuovere ciò che siamo».
Perché Chiara D’Auria, e torniamo al paragone di partenza, è una “pasionaria”, una guerrigliera culturale. «Io sono attratta da donne vicine alla cultura popolare, alle tradizioni, alla terra, alle lotte contadine, come Violeta Parra o Mercedes Sosa. Molto probabilmente perché influenzata dal mio percorso universitario. Sono laureata in Lettere moderne e sono stata sempre incuriosita dalle teorie sulle tradizioni popolari, dai periodi storici in cui si assisteva alla riscoperta della cultura popolare. Penso al Canzoniere di Pasolini, a Italo Calvino con il recupero delle fiabe, ai cantacronache, a Ernesto De Martino (etnologo meridionalista, nda), a questi fenomeni ciclici che ritornano in momenti in cui la società è proiettata verso il modernismo. Ritengo che non ci sia niente di più moderno che riprendere questi concetti. Mi spaventa la perdita delle identità locali. Per questo ritengo importante la manutenzione dal basso, la guerriglia culturale».
Tra l’altro, come indica Eugenio Bennato, la Basilicata, come la Calabria, anche perché regioni più impervie, hanno conservato meglio le proprie tradizioni culturali, sfuggendo alle mercificazioni che spesso hanno subìto invece la Sicilia e la Campania.
In Dupu, la canzone che apre l’album, Chiara paragona il lupo (“dupu”, appunto) al lucano «che non si è lasciato annebbiare la mente da chi lo vorrebbe schiavo». «È la canzone simbolo dell’album», prosegue. «Il lupo è un animale selvaggio, leale e forte. È un animale totem per molte popolazioni italiche, tra cui i lucani. Il lucano, come il lupo, però spesso abbassa la testa e si accontenta delle ossa. Io trasformo il lupo della canzone in mannaro, non violento però, ma lucido e cosciente, coraggioso e orgoglioso, che alza la testa ululando alla luna. Ecco, come fa il lupo, anche i lucani dovrebbero fare branco e ululare alla luna nella loro lingua, per farsi ascoltare e per resistere». Chiara D’Auria, Cappuccetto rosso, come appare in alcune foto, s’identifica nel lupo e, da guerrigliera culturale, mostra i denti.
Il tema del terremoto fa da filo conduttore all’album. Così non lo troviamo soltanto nella title-track, ma anche in altri brani, come Rušpë e pichi (Ruspe e picconi), dove si accenna anche al tema della ricostruzione che, spesso, non rispetta le tradizioni e omologa tutto nel segno della modernità.
Io trasformo il lupo della canzone in mannaro, non violento però, ma lucido e cosciente, coraggioso e orgoglioso, che alza la testa ululando alla luna. Ecco, come fa il lupo, anche i lucani dovrebbero fare branco e ululare alla luna nella loro lingua, per farsi ascoltare e per resistere
Chiara D’Auria
«Tito fu danneggiata pesantemente dal terremoto del 1980 che devastò l’Irpina e la Basilicata», spiega Chiara D’Auria. «Io ho avuto modo di svolgere una ricerca sulla ricostruzione. Girovagavo per le case dei compaesani per raccogliere i loro racconti. Una esperienza importante, dalla quale è germogliata l’idea per questo album. Ero resa partecipe del dolore della gente, della disperazione per aver visto crollare tutte le certezze. Molte abitazioni del centro storico sono state recuperate, ma altre – soprattutto la Chiesa Madre – sono state snaturate».
Al terremoto si possono anche collegare storie di emigrazioni, come la bella e ritmica Emigrandu, e di mogli (Nicòla) lasciate sole e senza nulla in paese. Più legate alle credenze popolari le storie di zitelle che Chiara trasforma in Acciéddu dë bòšcu, uccel di bosco che non si lasciano ingabbiare. O la tragicomica rappresentazione del guardone, conoscitore di tutti i vizi dei paesani. Pigliada d’uógghi è sui rituali contro il malocchio, alla quale fa seguito Beccamòrtu, visto come il “diverso”, l’escluso per superstizione, per credenze popolari, da scansare perché porta sfiga.
Alla fine, nella traccia fantasma Ji e la tèrra mìa, riunisce attorno a una chitarra le voci del paese, a ciascuna delle quali Chiara affida frasi del poeta Rocco Scotellaro.
A contribuire al debutto discografico della cantautrice lucana per la Liburia Records, la produzione artistica di Francesco Di Cristofaro (flauti, fisarmonica, sintetizzatori e programmazioni), coadiuvato da Paolo Del Vecchio (chitarre, bouzouki e mandolino), Gabriele Tinto (percussioni e drum machine), Carmine Scialla (chitarra battente), Kamer Khan (basso e contrabbasso), Ruben Diaz (tromba) e Giuseppe Aversano (chitarra classica a otto corde).
Féssë a cchi muόrë è un album nel segno del cantautorato femminile e della world music.Un disco “glocal” per gridare alla luna l’esistenza della Basilicata, di un popolo, di una terra, di una cultura. Si aspetta un segnale dal Premio Tenco.
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