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Brian Auger, il “padrino dell’acid jazz”

Esce il cofanetto “Far Horizons”, una raccolta di quattro leggendari album in studio registrati con Julie Driscoll e The Trinity tra il 1967 e il 1970: è il racconto della storia in cui il rock si fonde con il jazz. «Seguivo una linea retta tracciata tra pop e jazz che mirava alla “fusione” di entrambi gli elementi», racconta. Virtuoso dell’Hammond, ha suonato con tutti i grandi della musica, tranne con Hendrix. «Ho visto piangere Billie Holiday». Le difficoltà negli anni Ottanta, quando «tutti volevano i sintetizzatori», la rinascita nei Novanta

Per i più giovani Brian Auger è quello che ha fatto da padrino al fenomeno acid jazz, per i più attempati un organista che ha collezionato hit dagli anni Sessanta sul fronte del pop e dintorni, aprendo la strada a colleghi come Keith Emerson. Che il musicista inglese sia un pezzo di storia non ci sono dubbi, da quando anche in Italia era in testa alle hit parade prima con Save me (cover di Aretha Franklin), poi con This wheel’s on fire di Bob Dylan, guidando quei Trinity in cui militava la cantante Julie Driscoll (che entrò nel jazz di ricerca sposando il pianista Keith Tippett). Poi Auger è andato avanti, e ha messo il suo Hammond B3 sempre al servizio di un universo sonoro che maneggia da par suo, con classe e tecnica da vendere. Si è esibito con gli Yardbirds di Eric Clapton, John McLaughlin, Eric Burdon, Rod Stewart, Steve Ferrone, Billy Cobham, Zucchero, Giuni Russo, e ha fondato due band tuttora in attività. La più nota è la Brian Auger’s Oblivion Express. Meno nota è la Brian Auger Trinity, che include in formazione i figli Karma (batteria) e Savannah (voce) e Derek Frank al basso. A raccontare questa storia in cui il rock si fonde con il jazz è il cofanetto Far Horizons, una raccolta di quattro leggendari album in studio registrati con Julie Driscoll e The Trinity tra il 1967 e il 1970, completamente rimasterizzati sotto la guida di Brian, con artwork restaurati digitalmente.

Il gruppo è stato uno dei primi a voler abbattere intenzionalmente le barriere musicali. Lo stesso Brian Auger ha scritto sulle note di copertina di Definitely What! che la sua idea di musica «si trova lungo una linea retta tracciata tra pop e jazz e mira alla “fusione” di entrambi gli elementi». “Fusion” a quel tempo non era nemmeno un termine musicale riconosciuto, rafforzando le credenziali di Auger come ideatore e innovatore. «All’epoca il pubblico del jazz era un purista. Disprezzavano davvero il rock e il pop», ricorda. «Ho avuto persone che attraversavano la strada quando mi vedevano arrivare, ero persona non grata a Ronnie Scotts a causa della musica che stavamo facendo e dei vestiti che indossavamo». Fortunatamente, il pubblico dell’epoca non ha adottato lo stesso approccio sprezzante, Julie Driscoll, Brian Auger e The Trinity sono stati in tournée negli Stati Uniti ed erano esplosi sugli schermi televisivi americani come ospiti dei Monkees.

A Londra c’era un locale aperto fino a notte fonda, dove potevi incontrare i musicisti che avevano finito i loro concerti. Una sera entrò Billie Holiday, una star per noi. Qualcuno mise uno dei suoi dischi per omaggiarla, partì “You’ve changed“, ma dopo pochi minuti lei chiese se potevamo toglierla e si mise a piangere. Fu molto triste, ma fu anche una lezione

Brian Auger

La prima volta che Brian vide uno strumento non aveva nemmeno quattro anni: i tedeschi bombardavano Londra e la famiglia Auger si era trasferita in una casa più sicura dove, in un angolo, dormiva l’oggetto che avrebbe cambiato la sua vita: una pianola. «Aveva i pedali, mi sembrava di andare in bicicletta quando la suonavo. Ero affascinato da quell’oggetto e iniziai a imparare ascoltando le opere dei miei genitori. Mio fratello maggiore e la sua collezione di jazz fecero il resto». Quel bambino sarebbe diventato uno dei più grandi tastieristi della musica contemporanea.

Londinese nato in India, a Bihar, il 19 luglio 1939, una vita spesa su tasti dell’organo Hammond B3. Autodidatta, una carriera avviata come pianista jazz, Brian Auger fa i suoi primi concerti alla fine degli anni Cinquanta, pochi soldi ma grandi incontri: «A Londra c’era un locale aperto fino a notte fonda, dove potevi incontrare i musicisti che avevano finito i loro concerti. Una sera entrò Billie Holiday, una star per noi. Qualcuno mise uno dei suoi dischi per omaggiarla, partì You’ve changed, ma dopo pochi minuti lei chiese se potevamo toglierla e si mise a piangere. Fu molto triste, ma fu anche una lezione». Tutto questo successe quando Auger era ancora un semplice pianista, perché la folgorazione, quella definitiva, arrivò più tardi: «Camminavo per Shepherd’s Bush e un negozio di dischi aveva messo due casse all’esterno e diffondeva una musica incredibile. Corsi nel negozio e chiesi cos’era: mi mostrarono Back at chicken shack di Jimmy Smith. Comprai l’album e poi comprai un Hammond».

Quando arrivarono gli anni Sessanta, Londra divenne Swingin’, i Beatles baronetti e Brian una celebrità suonando il clavicembalo nell’introduzione di For your love degli Yardbirds di Eric Clapton. Circondato da modelle e attrici, Brian venne però a prendersi moglie a Milano: «Per tre settimane suonai in un locale chiamato “Bang Bang”, con Julie Driscoll. Un giorno incontrai una ragazza sarda e, come dite voi in italiano, rimasi fulminato». 

Clamoroso il rifiuto di suonare con Jimi Hendrix. Auger era già un nome ben noto sulla scena musicale londinese quando il chitarrista arrivò dagli Stati Uniti nel 1966. Il manager gli chiese se Hendrix si fosse potuto unire al suo gruppo: «Rifiutai… Ero felice con Julie come cantante e Vic Briggs alla chitarra», ha rivelato al quotidiano The Guardian. Lo stesso accadde, in America, quando fu il chitarrista a invitare Auger a suonare con lui: «Mi chiese di restare e di aiutarlo in un progetto di registrazione: il suo studio Electric Ladyland era in costruzione in quel momento. Purtroppo, ho dovuto rifiutare. Avevo prenotato molte date che non potevo cancellare. Poi ha tirato fuori dalla tasca un foglio d’argento, ha annusato e me lo ha offerto. Ho rifiutato, dicendo: “Non faccio nessuna di queste cose”. Jimi rispose: “Brian, dovrei avere più persone come te intorno a me”».

Oggi, a 83 anni, Brian Auger è un ritratto di buona salute, buon umore e creatività energica. È una sorta di London Zelig – un musicista le cui connessioni e creatività lo hanno visto servire come una figura fondamentale al centro di quelle che ora sono affettuosamente considerate le scene jazz, blues e rock degli anni Sessanta – eppure è meglio ricordato, se non del tutto, per This Wheel’s on Fire, la cover di Dylan che lo portò al quinto posto della “Top of the Pops” del 1968.

La lunga assenza di Auger dal Regno Unito ha fatto sì che la sua eredità fosse trascurata, almeno fino a quando Eddie Piller della Acid Jazz Records ha iniziato a salutarlo come “il padrino dell’acid jazz” all’inizio degli anni Novanta, attirando un pubblico giovane che si vestiva come lui quando suonava nei primi anni Sessanta. «Gli anni Ottanta sono stati un decennio difficile per un musicista Hammond poiché tutti volevano sintetizzatori», dice. «Quindi ho ridotto le cose a una piccola combinazione. Trovare questo pubblico giovane e ben vestito è una stata bella sorpresa».

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