Nel saggio “The Philosophy of Modern Song”, uscito oggi, le meditazioni del Nobel della Letteratura su 66 canzoni, una delle quali è quella portata al successo da Modugno. Una playlist rivelatrice, con molto blues e country, un po’ di soul, poche donne e solo un accenno al rap. Parla degli inni generazionali di Who e Clash, grande spazio agli anni Cinquanta, ma l’autore di “Blowin’ in the wind” si sofferma soprattutto sulla musica pre-rock
Cosa dobbiamo aspettarci dal titolo del nuovo libro di Bob Dylan? The Philosophy of Modern Song potrebbe essere un trattato di filosofia, oppure raccogliere gli insegnamenti dell’artista indirizzati alle nuove generazioni. O ancora il compendio di sessanta e passa anni di storia del rock. Anche la confezione sembra attribuire importanza all’opera, con un prezzo di copertina di ben 45 dollari.
Conoscendo l’autore, tuttavia, qualche sospetto si può avere. Anche perché, come avverte il comunicato stampa di Simon & Schuster, più di un terzo delle pagine sono riempite da «fotografie ben curate». Per decenni, inoltre, il “profeta del rock” ha teso trappole ai suoi devoti, i dylanologi che rastrellano canzoni e frammenti alla ricerca di indizi sull’enigma Dylan. Il titolo del libro, allora, potrebbe essere uno scherzo o una presa in giro per gli accademici di Stoccolma che gli hanno conferito il Premio Nobel per la letteratura nel 2016. In ogni caso, “filosofia” è un termine vago e abbastanza ampio da accogliere critica musicale, poesia beat, filippiche, polemiche.
Anche il tema non è originale: si tratta di meditazioni su 66 canzoni, una per capitolo. Ed i lettori di Dylan si sono già imbattuti nel commento della canzone di Brecht-Weill Pirate Jenny nel libro di memorie del 2004 Chronicles: Volume One e con le fantasticherie a tema musicale sparse nel suo esperimento di prosa-poesia della metà degli anni Sessanta Tarantula. Il modello più vicino potrebbe essere quello dei monologhi che Dylan ha consegnato in Theme Time Radio Hour.
Dylan entra nel tema senza presentazioni o introduzioni. Si comincia direttamente con un saggio su Detroit City, hit del 1963 del cantante country Bobby Bare. «Conoscere la storia della vita di un cantante non aiuta particolarmente la comprensione di una canzone», scrive Dylan. «È ciò che una canzone ti fa sentire riguardo alla tua vita che è importante».
La playlist di Dylan in The Philosophy of Modern Song non è esattamente sorprendente, ma è rivelatrice. C’è molto blues e country. C’è un po’ di soul – Ray Charles, Harold Melvin & the Blue Notes – e diverse canzoni dei titani del primo rock & roll, tra cui Elvis Presley, Carl Perkins e Little Richard, l’eroe di Dylan nella sua adolescenza. La maggior parte di noi si innamora della musica pop da adolescenti e non si allontana molto da quei successi che hanno avuto un ruolo formativo sulla nostra coscienza. Dylan non è diverso. Ventotto canzoni nel libro risalgono agli anni Cinquanta. Nove furono pubblicate nel 1956, l’anno in cui Dylan compì 15 anni.
PUNK ROCK È LA MUSICA DELLA FRUSTRAZIONE e della rabbia, ma i Clash sono diversi. La loro è la musica della disperazione. Erano un gruppo disperato.
Bob Dylan
Parla anche di inni rock degli anni Sessanta e Settanta – My Generation degli Who, London Calling dei Clash – e fa un paio di escursioni nel catalogo di Willie Nelson degli anni Ottanta. Ma è chiaro che la definizione di Dylan di “canzone moderna” non si estende all’era hip-hop. Cita Run-DMC, il Notorious B.I.G. e Jay-Z ma non approfondisce la musica. La registrazione più recente che considera, del 2004, è una interpretazione di una canzone di Stephen Foster composta nel 1849.
Alcuni dei passaggi più appassionati del libro riguardano il libro di canzoni della generazione dei genitori di Dylan, successi cantati dalle star vocali dell’era pre-rock. Dylan ha fatto quanto chiunque altro per rimuovere quella musica dal centro della vita americana, ma negli ultimi due decenni l’ha reclamata e ricontestualizzata. In album come Love and Theft (2001), Modern Times (2006) e la sua recente sequenza di dischi tributi a Sinatra, Dylan suona come una versione brizzolata di una ballata degli anni Trenta. Quelle registrazioni sono una causa contro il purismo folk, sostenendo che i vecchi standard pop sono potenti e misteriosi come qualsiasi confessione di cantautori o urlatrici.
In The Philosophy of Modern Song Dylan passa da una canzone all’altra, da un’idea all’altra, con una scrittura che ogni giornalista invidierebbe: ogni incipit esplode come una bomba a mano. «Questa canzone è il teschio sorridente»; «In questa canzone il fuoco si è spento e la tua vita è scomparsa»; «Il punk rock è la musica della frustrazione e della rabbia, ma i Clash sono diversi. La loro è la musica della disperazione». A volte, esprime giudizi diretti, soppesando la bellezza di Blue Moon con la sua «melodia uscita da Debussy», o omaggiando Your Cheatin’ Heart di Hank Williams, una canzone «perfettamente suonata e cantata… con l’esatta intensità». Nel capitolo su Pump It Up di Elvis Costello, Dylan nota correttamente il debito della canzone nei confronti del suo Subterranean Homesick Blues e offre una terza lettura: «Al momento di Pump It Up, [Costello] ovviamente aveva ascoltato troppo Springsteen».
“Volare” potrebbe essere una delle prime canzoni allucinogene, precedente a “White Rabbit” dei Jefferson Airplane di almeno dieci anni. Una melodia più orecchiabile che non ascolterai né sperimenterai mai
Bob Dylan
A pagina 153 troviamo l’unica canzone italiana esaminata dall’orecchio critico di Dylan: Volare (Nel blu dipinto di blu), Domenico Modugno, «originalmente realizzata come singolo (Fonit, 1958), scritta da Domenico Modugno e Franco Migliacci». «Questa canzone è sfrecciante e corre lungo il percorso, si alza per velocità e irrompe nel sole, rimbalza sulle stelle, fuma sogni irrealizzabili e si lancia nella terra dei cuculi e delle nuvole», scrive Bob. «È una canzone stravagante e vola in alto. Il suo obiettivo immaginario è l’Utopia, ed è dipinta di blu. Pittura a olio, cosmetici e cerone, affreschi con schiaffi blu e canti come un canarino». Poi aggiunge: «Questa potrebbe essere una delle prime canzoni allucinogene, precedente a White Rabbit dei Jefferson Airplane di almeno dieci anni. Una melodia più orecchiabile che non ascolterai né sperimenterai mai».
Secondo Dylan, «c’è qualcosa di molto liberatorio nell’ascoltare una canzone cantata in una lingua che non capisci. Vai a vedere un’opera e il dramma salta fuori dal palco anche se non capisci una parola. Ascolta la musica del fado e la tristezza gocciola da essa anche se non parli neanche una parola di portoghese… Per qualche ragione, alcune lingue cantano meglio di altre. Certo, il tedesco va bene per un certo tipo di polka da festa della birra, ma dammi l’italiano con le sue vocali gommose al caramello e il melodioso vocabolario polisillabico. In origine, Volare era cantata da un cantante italiano di nome Domenico Modugno, solo il suono del suo nome crea la sua canzone. Una canzone che potrebbe colpirti in qualsiasi momento, giorno e notte».
Per Dylan le canzoni non sono solo opere d’arte da analizzare e spiegare. Sono visioni che generano visioni, suggerimenti per meditazioni. Il suo saggio su Ball of Confusion dei Temptations dipinge scene di collasso sociale: «Sangue che scorre per le strade, terremoti nell’isolato successivo, donne violentate all’angolo delle strade, astronavi che decollano. Niente si è fermato». La voce di zio Dave Macon in Keep My Skillet Good and Greasy (1924) è un riff culinario esteso, una metafora che continua a mutare finché non viene ordinato tutto sul menu: «Sei Long John Silver e hai serpenti negli stivali, biscotti della fortuna e ciambelle glassate, e stai bevendo caffè freddo, mangiando carne secca e prosciutto da picnic, ingoiando interi bocconi di torta alla crema di Boston. … Questa canzone scioglie tutto, lo rosola e lo frigge in profondità. Mungerà la mucca finché non darà sangue».
Bisogna attraversare 46 capitoli prima di incontrare una canzone di un’artista donna: Gypsies, Tramps & Thieves di Cher. Ci sono solo quattro canzoni di donne nel libro. Eppure, le donne incombono largamente nella sua coscienza e sono onnipresenti nelle sue pagine, apparendo in una forma così mostruosa, evocate in un linguaggio così marinato nella misoginia. Le donne che incontriamo nei saggi di Dylan includono una «capra», una «cagna pazza», una «showgirl scavatrice d’oro, con la gonna a ruota in un abito da cocktail» e una «ragazza affamata di sesso a sangue caldo». Poi c’è il capitolo su Cheaper to Keep Her di Johnnie Taylor, una divertente canzone soul-blues sul divorzio che scatena Dylan in una diatriba sulla poligamia: «Non sono affari di nessuno quante mogli ha un uomo…»
In uno dei momenti più concisi di The Philosophy of Modern Song, Dylan fa l’ovvia ma importante sottolineatura che i testi pop, che possono «sembrare così leggeri» quando vengono letti, sono «scritti per l’orecchio e non per l’occhio». Ed è quando quelle parole vengono messe in musica e drammatizzate da un abile cantante che avviene la trasmutazione magica.
Alla fine, il volume risulta divertente, e il corredo fotografico che accompagna ciascun capitolo è davvero ben curato. E, in Europa, si può comprare online a 28,95 euro.