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U2 – “The Joshua Tree”

Ogni domenica, segnalisonori dà uno sguardo approfondito a un album significativo del passato. Oggi rivisitiamo l’album del 1987 considerato uno dei miglior album della band di Dublino, nonché uno dei più importanti della storia del rock

«Il titolo The Joshua Tree si addice ad un album che verte sulla capacità di ripresa di fronte a una forte desolazione politica e sociale…  The Joshua Tree è la risposta a questi tempi, e l’immagine più desolante mai descritta dagli U2: una visione di speranze devastate, violenza senza senso e angoscia… Musica di profonda tristezza ma anche di inesprimibile compassione, accettazione e calma». Così scriveva nel 1987 l’autorevole rivista americana Rolling Stone. 

In tempi di avanzata dei populismi e razzismi e di “post verità”, di Trump, Putin, Orban e Meloni, The Joshua Tree è ancora attuale non solo nei suoni. «Recentemente l’ho riascoltato per la prima volta dopo quasi trent’anni… è come un’opera», aveva commentato Bono nel trentennale del disco. «Tante emozioni che sono stranamente attuali: l’amore, la perdita, i sogni spezzati, la ricerca dell’oblio, la polarizzazione… tutti i grandi temi». 

È con The Joshua Tree che gli U2 entrarono dritti dritti nella leggenda, passando dalla porta principale. Rock, politica, sentimento, tutto all’insegna dello spirito iconoclasta di una band che, già dai precedenti lavori, aveva cominciato a seminare bene, ma che da lì in poi non farà che crescere, con picchi come Achtung Baby e Zooropa, capaci di ridisegnare l’idea di rock, sporcandolo, mischiandolo con suoni che poi in tanti avrebbero praticato.

Pubblicato il 9 marzo del 1987, The Joshua Tree è l’album che eleva gli U2 a superstar internazionali e nasce in un affascinante crogiuolo di rabbia politica, disperazione personale e turbolenza spirituale. Il sentimento ambivalente di amore-odio di Bono per l’America è lo spirito prevalente del lavoro. Come dice The Edge, i deserti degli Stati Uniti nord-occidentali diventano «una specie di metafora». Ad influenzare le canzoni sono gli elementi biblici evocati da scrittori come Raymond Carver, Norman Mailer, Sam Shepard, Tennessee Williams, Flannery O’Connor. Mentre, come indica la monumentale Where the streets have no name nell’introduzione affidata alle tastiere che richiamano volutamente MLK, al termine del disco precedente, The Joshua Tree vuole portare a compimento le parti più sperimentali di The Unforgettable Fire, secondo Edge comunque «connesso musicalmente e tematicamente».

Il gospel impregna I Still Haven’t Found What I’m looking For, manifesto esistenziale degli U2 e di intere generazioni, mentre a With Or Without You viene affidato il compito di lanciare l’album. Un successo clamoroso nelle radio e nelle classifiche di tutto il mondo. Quasi una parafrasi degli “Amores” di Ovidio o degli “Epigrammi” di Marziale, è una ballata sui tormenti dell’amore. 

«The Joshua Tree è come un viaggio», fa notare Adam Clayton. «Inizi dal deserto per piombare in America Centrale a correre per salvarti la vita», riferendosi a Bullet The Blue Sky, altro capolavoro, ispirato da una visita di Bono in El Salvador e Nicaragua, dove incontra i parenti delle vittime dei famigerati Squadroni della Morte e assiste di persona al bombardamento di un villaggio inerme, fremendo dell’indignazione riversata poi nella canzone, che diventa uno dei momenti più tirati ed emozionanti di ogni tournée.

Un’altra esperienza personale è alla base di Running To Stand Still. Si viene proiettati tra le malfamate case popolari di un quartiere di Dublino, poco lontano dai luoghi d’infanzia di Bono, tra degrado e tossicodipendenza (“sai che ho preso il veleno dal fiume avvelenato / Poi ho galleggiato fuori di qui”). La vita di tutti i giorni ispira anche Red Hill Mining Town, allusione sin dal titolo a uno standard folk di Peggy Seeger e alle inchieste giornalistiche sulla comunità di minatori inglesi di Red Hill.

Legata a I Still Haven’t… è l’ariosa In God’s Country (“abbiamo bisogno di nuovi sogni stanotte”). «L’intero panorama politico è completamente superato», considerava a quel tempo Bono. «La Destra e la Sinistra sono ridicole… non significano più nulla. Potevi imparare da Marx o da Lenin… ma la mia preoccupazione è: perché non ci sono più Marx o Lenin?». 

Si prosegue con la ballata country-blues Trip Through Your Wires, registrata in presa diretta con armonica dylaniana, la toccante One Tree Hill (uno dei capolavori nascosti del quartetto) che cita il poeta cileno Victor Jara prima di chiudersi con alcuni versi a cappella perfetti per introdurre Exit, la descrizione straordinaria del “cuore di tenebra” mai rappresentata dagli U2 e uno dei loro brani più superbi, esempio estremo di connessione tra parole e musica, un’angosciante evocazione del lato oscuro di ciascuno, suggerito fino alla fine da un basso quasi insostenibile e da una batteria senza freni, in una alternanza impressionante di calma apparente e follia omicida.

L’album si chiude con un altro lamento funebre, suscitato dall’orrore degli Squadroni della Morte sudamericani. Il ritmo di Mothers Of The Disappeared sembra accompagnare la marcia dolorosa dei familiari di centinaia di desaparecidos, così come le loro lacrime sembrano quasi sgorgare dagli inquietanti effetti sonori e dalle tastiere di Brian Eno, sottolineati dai vocalizzi di Bono.

L’album rimase per un anno nella Top 30 britannica e tre mesi al vertice della classifica di Billboard, sfiorando a tutt’oggi i 30 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Rappresenta il più grande successo di vendite degli U2 ed è considerato uno dei migliori album della storia della musica.

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