Il chitarrista ospite del Medimex di Taranto in occasione dell’inaugurazione della mostra fotografica dedicata alla New York dei Velvet Underground e di Andy Warhol. «Eravamo entrambi molto timidi. Bastò una stretta di mano per capire che avevamo qualcosa in comune. Era una persona molto profonda e sensibile». «Quel disco è un’opera geniale, peccato non sia andato bene, alla critica non piacque». Del musicista dell’Illinois la leggendaria intro di “Sweet Jane” in “Rock’n’roll animal”
Chitarrista rock, autore di alcuni storici riff della storia di questo genere, Steve Hunter per anni ha spaziato negli ampi territori della musica, dall’heavy al folk, dal rock’n’roll animal al progressive, giocando un ruolo decisivo negli album di Alice Cooper come in Berlin di Lou Reed o nel debutto solista di Peter Gabriel (è lui a suonare l’intro acustica di Solsbury Hill), per non parlare dei tour con Meat Loaf, Tracy Chapman, Mitch Ryder, Aerosmith e altri.
L’anziano chitarrista
Oggi Steve Hunter è un anziano signore che deve appoggiarsi al bastone e alla moglie per poter camminare, con gravi problemi di vista che lo hanno costretto ad abbandonare la musica. A Taranto, dov’era ospite per la presentazione della mostra Perfect Day, Lou Reed e la New York di Andy Warhol, giovedì 14 giugno ha festeggiato 75 anni con una pannosa torta offerta da Medimex, proprio nel giorno dell’inaugurazione dell’esposizione che comprende 55 fotografie che raccontano la storia della Factory di Andy Warhol.
Di quell’esperienza Steve Hunter, americano dell’Illinois, non fu testimone. Anzi il suo primo incontro con Lou Reed avvenne a Londra. «Era il 1973, fui convocato per la realizzazione dell’album Berlin», ricorda. «Non ci dicemmo nulla. Eravamo entrambi molto timidi. Bastò una stretta di mano per capire che avevamo qualcosa in comune».
Di Lou Reed, fino a quel momento, Steve Hunter conosceva «qualcosina dei Velvet Underground. E, ovviamente, Walk on the Wild Side, come tutti. Quando l’ho sentita pensavo che quel tizio fosse il più figo del pianeta. Bastava il testo, è incredibile. Dopo ho approfondito un po’. Ho ascoltato le cose dei Velvet Underground, ma non pensavo che l’avrei mai conosciuto, figuriamoci lavorarci insieme. È stato fantastico quando Bob mi ha detto che avremmo fatto un disco con lui».
Lou Reed veniva dal grande successo commerciale di Transformer, una delle pietre miliari del rock, con canzoni icone come Perfect Day, Walk on the Wild Side, Vicious, Satellite of Love. Berlin era completamente diverso: più delicato, profondamente doloroso, opera-incubo sulla guerra fredda non ben accolta dalla sua Casa discografica e dal pubblico. «Non ero mai stato a Berlino quando registrai quell’album», mi raccontò Lou Reed durante una cena tanti anni fa a Bari, dov’era ospite della rassegna “Time Zones”. «Volevo solo rappresentare una metafora della divisione, di due anime che si amano ma non riescono a vivere in pace, e quella mi sembrò la città ideale dove ambientare la storia. È stato solo uno dei miei tanti dischi che non hanno venduto, e certamente il più romantico».
Voleva fare un disco artistico. Era la storia di due persone e delle loro vite. Credo che Lou ce l’avesse dentro da tempo. Quando abbiamo iniziato a lavorarci, quel disco è diventato anche un po’ mio. Me ne sono innamorato. Pensavo fosse la cosa più geniale che avessi sentito in vita mia. Registravamo le canzoni nell’ordine in cui appaiono, non ho scoperto il finale della storia fino alla fine. I pezzi e soprattutto i testi erano sconvolgenti. Pensavo che fosse un genio. Peccato che il disco non sia andato bene, alla critica non piacque
Steve Hunter
«Voleva fare un disco artistico. Era la storia di due persone e delle loro vite. Credo che Lou ce l’avesse dentro da tempo», commenta Hunter. «Quando abbiamo iniziato a lavorarci, quel disco è diventato anche un po’ mio. Me ne sono innamorato. Pensavo fosse la cosa più geniale che avessi sentito in vita mia. Registravamo le canzoni nell’ordine in cui appaiono, non ho scoperto il finale della storia fino alla fine. I pezzi e soprattutto i testi erano sconvolgenti. Pensavo che fosse un genio. Peccato che il disco non sia andato bene, alla critica non piacque».
Leggendaria è l’intro di Sweet Jane che Steve Hunter ha scritto per l’album “live” Rock ’n’ Roll Animal. «Avevo iniziato a lavorarci mentre ero con Mitch Ryder. Ero nel mio salotto con Brett Tuggle (tastierista dei Whitesnake scomparso l’anno scorso, nda) e ho cominciato a suonare l’acustica. Lui mi ha chiesto cosa stessi facendo e io gli ho detto che stavo provando un giro nuovo. Pian piano l’ho perfezionato. Ha attraversato fasi diverse. L’ho provato con altre band, ma non suonava mai bene. Pensavo che fosse una bella progressione di accordi, ma che non sarebbe finita da nessuna parte. Poi siamo andati alle prove del tour di Lou Reed e il management ci ha detto che dovevamo tirare fuori qualcosa per accompagnare il suo ingresso sul palco, una sorta di jam. Alle prove abbiamo provato varie cose diverse. Alla fine, ho proposto quel giro. La band l’ha provato e finalmente suonava bene. A Lou piaceva, quindi l’abbiamo usato in tour. Io ho scritto la struttura degli accordi e l’armonia dell’inizio, gli altri hanno improvvisato il resto. Hanno tirato fuori dei passaggi incredibili. Pensavo: wow, si è trasformato in qualcosa di figo».
Ed è nel backstage di quel tour che il rapporto professionale fra Lou Reed e il chitarrista si è tramutato in amicizia. «A entrambi, essendo dei timidi, piaceva condividere l’evento. Dopo il concerto ciascuno per proprio conto», racconta Hunter. «Durante il tour la barriera della timidezza crollò, e cominciammo a frequentarci anche dopo lo show. Lou Reed eccentrico? Boh, per me era una persona molto profonda, sensibile, con la quale si potevano fare discussioni interessanti. Quando ci siamo rivisti trent’anni dopo, la sintonia era rimasta intatta».
La mostra “Perfect Day”
La mostra, organizzata a dieci anni dalla scomparsa di Lou Reed e curata da ONO arte, è visitabile fino al 16 luglio al MArTA di Taranto. Ripercorre la storia dell’ex Velvet Undergound e comprende 55 fotografie. È una collettiva che include le opere di alcuni tra i più importanti fotografi internazionali del tempo e oggi tutti scomparsi: da Mick Rock a Steve Schapiro, da Nat Finkelstein a Stephen Shore, passando per Ronn Spencer, Adam Ritchie e Allan Tannenbaum. Si va dalle foto glamour di Schapiro commissionate da Andy Warhol con la stupenda Nico a far da top model agli scatti per le copertine di Transformer e Coney Island Baby sino alle collaborazioni con David Bowie e Iggy Pop, per concludere il percorso espositivo con alcune prime edizioni originali degli album di Lou Reed e dei Velvet Underground (quelli con la banana in copertina) provenienti dalla collezione di Alessandro Santamaria.
Fra le curiosità due fotografie scattate dal regista tedesco Wim Wenders durante le riprese di Così lontano così vicino. Il film, una sorta di seguito de Il cielo sopra Berlino, venne girato nella città tedesca riunificata dopo il crollo del Muro. Lou Reed è in città per un concerto e viene intercettato dall’angelo Cassiel, prima in una camera d’albergo mentre suona la chitarra cercando di ricordare un verso che gli era venuto in mente la sera prima, poi quando Cassiel è divenuto umano durante il concerto, mentre Lou esegue il brano Why Can’t I Be Good.
L’ultimo incontro tra i due avviene in strada, quando Lou Reed si avvicina per fare l’elemosina a Cassiel, la cui breve e difficile esperienza tra gli umani lo ha portato rapidamente ad essere emarginato dalla società. «Why can’t I be good?», domanda l’angelo caduto sulla terra, ricordandogli la canzone. E Lou Reed, dopo avergli messo una banconota in mano, gli giura che se lo avesse saputo glielo avrebbe certamente detto. Espressione della sincerità e della fragilità dell’artista.