Storia

Sanremo, quando arrivavano le superstar

Ai tempi d’oro il Festival presentava divi internazionali della musica e di Hollywood. Oggi vecchie glorie, band in declino come i Black Eyed Peas o i Depeche Mode passati all’Ariston altre tre volte senza lasciare traccia

Una volta i cosiddetti “superospiti” del Festival di Sanremo erano star internazionali della musica o divi di Hollywood. Nelle settimane precedenti lo scoop era proprio quello di aver in anteprima la notizia dell’“asso” nella manica del direttore artistico. Nei giorni della gara, i fan arrivavano a frotte da ogni parte d’Italia, assiepandosi all’ingresso posteriore dell’Ariston nella speranza di strappare una foto o un autografo. Nel 1985 ad accogliere i Duran Duran furono tre chilometri di urla di ragazzine scatenate che volevano sposare un infortunato Simon Le Bon.

Il “superospite” era il fiore all’occhiello. Sognato, inseguito, coccolato. Tanto che alcune edizioni sono ricordate più per la presenza di un grande artista straniero, piuttosto che per la canzone che vinse la gara. Come l’edizione del 1996, firmata da Pippo Baudo e aperta in modo rivoluzionario: Bruce Springsteen, chitarra a tracolla, che rievoca il fantasma di Tom Joad. Indimenticabile. O, ancora, nel 2000, edizione Fabio Fazio, con Bono e The Edge degli U2 in missione per conto di Jubilee che parlano attraverso le telecamere all’allora premier Silvio Berlusconi per la riduzione del debito dei Paesi poveri e poi abbozzano The ground beneath her feet. Nella stessa sera, incontreranno Sting nei camerini.

Certo costavano gli “ospiti internazionali”. E, spesso, si trattava di una toccata e fuga: il tempo di una canzone, per poi alloggiare sulla Costa Azzurra, prove blindate, macchinoni dai vetri fumé, guardie del corpo torve e irascibili. Comportamenti che la città mal sopportava e spese che la Rai a un certo punto non poté più sopportare. Anche perché non sempre la presenza dello straniero rappresentava un “valore aggiunto”. Pochi hanno regalato performance indimenticabili, limitandosi a cantare in playback per promuovere un nuovo disco o un tour. Gli stranieri a Sanremo, comunque sia, hanno scritto una storia di grandi emozioni, gaffe, liti e capricci divistici. A cominciare dal 1964. Prima di quella data il Festival era autarchico al cento per cento. L’idea di importare divi per rieseguire le canzoni in gara è del patron Gianni Ravera.

Al Festival approdano via via vere superstar dell’epoca: Paul Anka, Dionne Warwick, Pat Boone, Ben E. King, Connie Francis, Petula Clark, Françoise Hardy, Shirley Bassey, Nino Ferrer, Antoine… Nel 1967 arriva anche Mick Jagger dei Rolling Stones. Ma solo per accompagnare l’amata Marianne Faithfull, scelta per reinterpretare C’è chi spera in gara con Ricky Maiocchi. L’anno dopo, quello in cui dilaga la contestazione, spunta il grande Satchmo, Louis Armstrong. Non gli spiegano che si tratta di una gara di canzoni e così, dopo aver finito l’esecuzione di Mi va di cantare (con Lara Saint Paul), continua a improvvisare con la sua magica tromba jazz. Il presentatore Baudo lo deve trascinare di peso fuori dal palco. Esattamente trent’anni dopo sarà Raimondo Vianello ad allontanare la divina Madonna disposta a trattenersi sul palco: «Grazie, ma dobbiamo andare avanti». E nel ‘91 andrà peggio a Rod Stewart: allontanato poco prima di salire sul palco dall’organizzatore Aragozzini perché voleva cantare una canzone sola.

In quegli anni Sessanta la gara offre abbinamenti impensabili: Cher con Nico Fidenco per Ma piano per non svegliarti e in duo con il marito Sonny per Il cammino di ogni speranzacon Caterina Caselli; Stevie Wonder con Gabriella Ferri per Se tu ragazzo mio; Wilson Pickett con Lucio Battisti per Un’avventura. Con gli Yardbirds (mitico gruppo di Eric Clapton), che gareggiano con Lucio Dalla per Paff…Bum. Il massimo della trasgressione è, nel 1970, rappresentato da Sandie Shaw che canta scalza, in un abitino luccicante, Che effetto mi fa in coppia con Pino Donaggio. E il massimo del divismo viene regalato da Gene Pitney che si sposa su un panfilo davanti a Sanremo. 

La formula-Ravera verrà riproposta dal patron Adriano Aragozzini agli inizi dei Novanta. Anche in questo caso abbinamenti sorprendenti che, tuttavia, si rivelano funzionali: i Pooh vincono in coppia con Dee Dee Bridgewater con Uomini soli, Ray Charles trasforma in una canzone una lagna, Amori, di Toto Cutugno, Miriam Makeba esalta Caterina Caselli, Grace Jones stupisce in Spalle al muro in coppia con Renato Zero. E per Milva torna, ma con le scarpe, Sandie Shaw. 

Negli anni Settanta, quando cala l’interesse nei confronti del Festival da parte della Rai, è il patron Vittorio Salvetti a inventare la formula del “superospite”. Arrivano anche Julio Iglesias e Suzi Quatro, ma la Rai decide di non mandare in onda proprio le esibizioni delle star straniere. Di edizione in edizione gli stranieri riprendono quota: arrivano artisti come Barry White, Bonnie Tyler, Village People, Kate Bush, Demis Roussos, Sheila B. Devotion, Robert Palmer, John Denver, Gloria Gaynor, Johnny Hallyday, Van Halen, Donovan… E nel 1982 in collegamento dagli States, Bee Gees e Kiss.

Con la disperata necessità di conquistare al Festival i telespettatori più giovani, alla metà degli anni Ottanta, si punta sempre più sulle star internazionali da hit parade. Ecco le band che fanno impazzire le ragazzine: Culture Club, Depeche Mode, Duran Duran (Simon Le Bon va in scena con la gamba ingessata), Spandau Ballet, R.E.M, Dire Straits. The Smiths. Per sottolineare la nuova vocazione del Festival giovanilistica, nel 1987, si inaugura il Palarock. Patsy Kensit è protagonista di un momento “cult”: le cade la spallina del vestito lasciandole scoperto il seno destro. Nel 1984 ci sono i Queen. Nel 1988 si sfiora la riunione tra gli ex Beatles McCartney e Harrison: Paul è all’Ariston, George al Palarock.

“Usati” dalla Rai come acchiappa-ascolti, gli stranieri diventano merce di scambio per le case discografiche per ottenere “trattamenti speciali”. Nel 1993, la Virgin, quando vede esclusi i suoi big dalla gara, per rappresaglia fa fare dietro-front alle sue star straniere. Adotta la stessa posizione la Federazione delle multinazionali del disco. Scompaiono dall’orizzonte del Festival i Genesis e Janet Jackson, Iglesias e McCartney, i Duran Duran e Neil Young, Brian Ferry e Sarah Jane Morris. La Rai paga di tasca propria Rod Stewart e Diana Ross: «Per dimostrare che possiamo fare da soli», sbottano i dirigenti di viale Mazzini. Ma l’anno dopo si fa la pace: Elton John dà spettacolo in coppia con il travestito newyorkese Ru Paul e i Take That sono rincorsi per le strade da migliaia di ragazzine. Nel ‘95 il Festival è blindato per l’algerino Khaled e l’israeliana Noa. Ed Elton John mette tutti nei guai dando forfait all’ultimo minuto. Ecco arrivare tutte le star del villaggio globale: Spice Girls, Mariah Carey, Celine Dion, Ricky Martin, Whitney Houston. E dicono sì persino il Boss, David Bowie, Madonna, Bono, Sting, Eminem, Placebo (che spaccano le chitarre sul palco).

Negli ultimi anni il “superospite” ha assunto significati via via diversi. Può essere “italiano” come “internazionale”. Ma mentre i secondi sono via via spariti, sia per la politica autarchica adottata dalla Rai perché bisognava stringere la cinghia, sia per le trasformazioni dell’industria musicale, i primi sono stati inizialmente quelli che si tengono alla larga dal Festival e adesso, secondo l’ultima definizione, sono vecchie glorie con più di 70 anni. Ma l’invito ai Måneskin conferma che per Amadeus l’eccezione ai regolamenti sono la regola. 

Depeche Mode (in alto) e Black Eyed Peas

Né tragga in inganno la presenza quest’anno dei Black Eyed Peas e dei Depeche Mode alla quarta presenza sanremese, la prima senza Andy Fletcher, scomparso l’anno scorso, per uno spottone al nuovo album Memento Mori: passarono senza lasciare grandi ricordi all’Ariston nel 1986 con Stripped, nel 1989 con Everythings counts e nel ’90 con Enjoy the silence in playback. Non è certamente il segnale di una inversione di tendenza: è come passare da un menu stellato a un panino con l’hamburger e prosecco. D’altronde, all’era dei paninari è fermo Amadeus. Che non ha la preparazione, né lo spessore culturale di un Baudo o di un Fazio per poter accogliere “superospiti” di quel calibro. 

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