Il frontman degli Almamegretta dedica un album a Sergio Bruni, la “Voce di Napoli”: «Fa parte del mio patrimonio familiare e culturale. Questo disco l’ho sentito quasi come un imperativo artistico». «Nella sua musica c’erano già aperture ad altri mondi, la sua “Carmela” mi ha ispirato “Nun te scurdà”»
Anima migrante per eccellenza, come s’intuiva dalla parola Almamegretta, band della quale è il frontman, dopo un lungo nomadismo sonoro, Raiz ha ritrovato la via di casa. Dalla quale, in effetti, ha scoperto di non essersi mai allontanato troppo. Nell’album Si ll’ammore è ‘o ccuntrario d’’a morte, in uscita il 24 febbraio, rende omaggio a Sergio Bruni, la “Voce di Napoli”, secondo una celebre poesia che Eduardo dedica proprio a Bruni.
«Sergio Bruni è la voce della mia infanzia, che ho conosciuto attraverso il lessico familiare. È la mia famiglia ascoltava i suoi dischi. È la voce dei Quartieri Spagnoli dove sono nato e cresciuto. Attraverso la sua musica ho assimilato quelli che sono diventati i miei strumenti espressivi, l’uso della lingua napoletana, le sonorità», racconta Gennaro Della Volpe, aka Raiz. «È stato il centro, l’ultimo grande cantante di una tradizione che metteva insieme tutta la città. Aveva un ascolto trasversale, anche se certa borghesia preferiva Murolo perché meno viscerale, meno attaccato alla tradizione. C’è stato un tempo in cui tutta la città si è identificata nel suo modo di cantare. L’identificazione dei ceti agiati e del popolo, senza distinzioni. Dopo di lui c’è stato soltanto Pino Daniele. Oggi Napoli è più divisa, anche geograficamente: il popolo che vive nella zona storica e la borghesia nella zona alta».
Sergio Bruni è considerato un indiscusso caposcuola. Insieme a Roberto Murolo, ha il merito storico di avere riportato in vita l’anima più genuina della canzone napoletana. «Il suo stile, prezioso e viscerale allo stesso tempo, si apparenta alla tipologia dei cantori popolari», è stato scritto. «Sembra far riemergere in vibrate modulazioni l’eco di influssi arabi e spagnoli, non del tutto cancellati dall’anima del popolo napoletano». Ed è quello che mette in rilievo Raiz in questo album.
«Sergio Bruni è stato un punto di svolta che lega tradizione e modernisti», riprende Raiz. «Le sue erano canzoni moderne che arrangiava ascoltando musiche che venivano da fuori. A un non napoletano potrei dire che Sergio Bruni era come Charles Aznavour per i francesi: un simbolo. Metteva insieme tante anime. È un mondo che non esiste più, ricordo di una generazione precedente come la mia che ho 55 anni. Ma valeva la pena ricordarlo. L’ho sentito quasi come un imperativo artistico. È una sorta di threequel di quello che ho fatto con altri progetti. Era una necessità. Ed è un modo per mostrare alle nuove generazioni l’importanza di Bruni».
Fra i progetti precedenti c’è, ad esempio, l’album “Musica immaginaria mediterranea”, nel quale la canzone napoletana diventa una cantiga sefardita e un canto tradizionale mediorientale una fronna alla Sergio Bruni. Protagonisti in quell’album i Radicanto, qui complici di Raiz nella riverniciatura della “Voce di Napoli”. «Questa volta però siamo rimasti fedeli alla lettera negli arrangiamenti», sottolinea Raiz. «Non abbiamo deviato verso sonorità estreme, arabe, orientali, come in quel disco. Abbiamo sì spinto l’acceleratore sulle allusioni che sono insite nelle stesse canzoni di Bruni: al fado, alla milonga».
In Amaro è ‘o bene dove Sergio Bruni si limitava a evocare una fisarmonica, Raiz la inserisce nella seconda strofa. Napule doceamara ricorda la Santiago del Cile, mentre Che lle conto? diventa un tango alla Piazzolla. «Ma se tu ascolti le versioni originali, si avvertono chiaramente le allusioni a quei mondi sonori. Noi ci siamo limitati a confondere un po’ le acque».
Non come quella volta in cui con il compianto Fausto Mesolella mescolò Carmela, la leggendaria canzone di Sergio Bruni con I’m you man di Leonard Cohen. La storia che avvolge il testo di Carmela è di straordinario fascino. La canzone venne scritta dal poeta Salvatore Palomba e dietro all’identità di Carmela, si nasconde la città di Napoli che è «rosa, preta e stella e che chiagne sulo si nisciuno vede e strilla sulo si nisciuno sente». Il testo è una dedica alla città che era sprofondata nelle mani delle persone sbagliate, della criminalità, della camorra e della guerra. Rappresenta la speranza di rivivere di nuovo dei momenti migliori. La canzone ha riscosso un grandissimo successo, in molti l’hanno celebrata, Mina, Enzo Avitabile, John Turturro che l’ha resa apertura del suo film Passione, nella versione di Mina.
A vent’anni non mi sarebbe mai venuto in mente di fare un album come questo: Sergio Bruni rappresentava un mondo lontano dal mio. Eppure, la sua influenza mi ha accompagnato anche quando mi sono avventurato in altri mondi, da quello arabo ai sefarditi, all’Oriente. Mondi che s’insinuano in sottofondo in questo disco. Sì, l’anima migrante torna a casa, al punto di partenza, anche se non sapeva di essere partita da qui
Raiz
«Carmela è una canzone alla quale sono molto legato», confessa Raiz. «Con il tempo ho scoperto che mi ha ispirato Nun te scurdà, il brano più popolare degli Almamegretta. Hanno la stessa radice. E poi era un brano al quale era molto affezionata mia nonna. Appartiene al mio patrimonio familiare e culturale».
Quale criterio avete seguito nella scelta dei brani?
«Abbiamo preferito prediligere il Bruni autore. Sono dieci tracce e sono tutte composte da lui, nella musica e nella melodia, mentre i testi sono del poeta Salvatore Palomba che ha riempito di significati le canzoni. Palomba, che oggi ha 90, ha seguito tutta la lavorazione dell’album, contribuendo anche nella scelta dei pezzi. Nonostante l’età, ha ancora il piglio di un ragazzino. Tra l’altro, essendo stato il direttore editoriale di Rizzoli, ha avuto la funzione dell’editor. È stato sempre al mio fianco, abbiamo definito insieme la scaletta, mi dava consigli negli arrangiamenti».
L’anima migrante ha trovato dove fermarsi?
«Ho fatto un po’ di tutto. E, a questo punto, se non dovessi fare più niente, andrebbe bene lo stesso. Anche se ancora qualche mezza idea l’ho in testa. Questo disco, in effetti, segna il ritorno a casa, ma ricostruita. A vent’anni non mi sarebbe mai venuto in mente di fare un album come questo: Sergio Bruni rappresentava un mondo lontano dal mio. Eppure, la sua influenza mi ha accompagnato anche quando mi sono avventurato in altri mondi, da quello arabo ai sefarditi, all’Oriente. Mondi che s’insinuano in sottofondo in questo disco. Sì, l’anima migrante torna a casa, al punto di partenza, anche se non sapeva di essere partita da qui».