Storia

Philip Selway: i Radiohead come nave madre

Il batterista della band di Oxford pubblica “Strange Dance”: «Ogni tanto piace anche a me stare al centro della scena». «I segreti della band? Li abbiamo appresi da altri gruppi, come i REM quando siano andati in tour a metà degli anni Novanta e siamo venuti in Sicilia»

I Radiohead sono trasgressori seriali delle regole. Oltre a riempire gli stadi con un’aria piuttosto triste, uno dei loro risultati più importanti è stato quello di ricalibrare il significato di essere una big band. Il gruppo è diventato una nave madre, dalla quale i suoi membri possono partire e tornare a seconda dell’umore e senza minacciare l’integrità del progetto.

Questo è stato evidente negli ultimi due anni. Mentre il cantante Thom Yorke e il chitarrista solista Jonny Greenwood hanno dato vita a The Smile, intriso di jazz, con il co-fondatore e batterista dei Sons of Kemet Tom Skinner, e il chitarrista Ed O’Brien debuttava da solista con l’album Earth, il batterista Philip Selway lavorava a Strange Dance. Eppure, nessuno ipotizzava che i Radiohead fossero defunti. Tutt’altro.

«Abbiamo imparato osservando da vicino le altre band», dice Selway. «Come quando siamo andati in tour con i REM a metà degli anni Novanta e abbiamo suonato in Sicilia, a Catania, vedendo come funzionava una band del genere. E come hanno mantenuto quell’integrità a ciò che stavano facendo».

Selway siede alla batteria con i Radiohead da quando gli art-rockers più lunatici della Gran Bretagna si presentavano come On a Friday e provavano durante la pausa pranzo a scuola. Con grandi gruppi come i Radiohead o gli U2, un batterista non è mai semplicemente un batterista. Selway ha iniziato a scrivere canzoni nella sua camera da letto nell’Oxfordshire e nell’ultimo decennio è tornato al primo amore con una serie di album solisti. Il suo ultimo, Strange Dance, è forse il migliore e piacerà ai fan che apprezzano il lato più tranquillo e spettrale dei Radiohead. 

I Radiohead non erano nel suo radar quando ha iniziato a scrivere il materiale. La band ha esteso la pausa quando è iniziata la pandemia, lasciando Selway solo con i suoi pensieri. Da quel periodo di riflessione sono usciti brani come Picking Up Pieces, una nenia tremante che scende in vortici di paranoia attraverso versi come “I’m on the outside/ I’m on the outside looking in”, o Check For Signs Of Life

«I miei punti di riferimento musicalmente non sono soltanto i Radiohead. Sono legati alle relazioni musicali che ho costruito nell’ultimo decennio nel mio lavoro da solista», spiega. E nomina collaboratori come la percussionista Valentina Magaletti, la violoncellista e cantante Laura Moody e il chitarrista dei Portishead Adrian Utley. 

«Quando ho iniziato a voler far parte di una band avevo 14 o 15 anni, e scrivere canzoni e suonare la batteria andavano di pari passo», racconta. «Stavo imparando i miei primi accordi in modo da poter scrivere canzoni. Ho avuto la mia prima chitarra prima della mia prima batteria. Poi, verso la fine della scuola, sono entrato negli On a Friday, che sono diventati i Radiohead. C’erano già abbastanza chitarristi in quella band. Così ho preso le bacchette».

I Radiohead notoriamente non hanno mai sorriso quando hanno conquistato il mondo. Questo nonostante il fatto che OK Computer, del 1997, sia considerato da molti forse il miglior album del suo decennio. Thom York ebbe un lieve esaurimento nervoso dopo un concerto del 1997 a Dublino. Ritirandosi nella sua suite al Clarence Hotel, riversò la sua angoscia su un foglio bianco: “Quello non sono io / io vado dove voglio / cammino attraverso i muri / fluttuo sotto il Liffey / non sono qui”, come canta in How to Disappear Completely, la canzone che scrisse quella notte, poi inserita nell’album Kid A.

I Radiohead in concerto: Thom Yorke in primo piano, alle sue spalle il batterista Philip Selway

Selway non ha mai apprezzato gli aspetti più stellari di suonare negli stadi e viaggiare per il mondo. Le coccole, quella sensazione di vivere in una bolla dove ogni capriccio viene soddisfatto, le ha sempre viste come un’illusione malsana. «Ti riporta a essere infantile. Quella mentalità, che puoi adottare in tour, è totalmente inappropriata in quel contesto. Divertente entrarci di tanto in tanto, ma non è un posto in cui vivere».

I Radiohead saranno sempre il lavoro della sua vita. Tuttavia, se è felice dietro alla batteria, confessa che una parte di lui vuole godersi i riflettori. «Essere un batterista sembrava una buona dinamica nei Radiohead. Ne ero felice. Thom è sempre stato un frontman molto accattivante e naturale. Ma c’è un elemento di me che mi spinge a essere un po’ più al centro della scena».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *