Interviste

A Calabrian man in New York

– Peppe Voltarelli ha portato il suo dialetto e l’asprezza della sua terra nella “cultura della congestione” ed è nato l’album capolavoro “La grande corsa verso Lupionòpolis” dove Tom Waits e Paolo Conte sembrano ballare la tarantella
– I suoni e i ritmi dei cinque continenti in cui l’artista ha camminato, nel suo trentennale percorso, sono fusi in modo potente, senza mai dimenticare le origini simboleggiate nella patata silana che accompagna la pubblicazione del disco
– «La base di partenza è la mia lingua, seguo il blues, la terra, il fango, le mareggiate, le camicie dimenticate a casa di amici in Canada, il profumo dei negozi dei pakistani a Firenze, il vuoto cosmico della stazione di Sibari alle due di pomeriggio di febbraio, i disegni di mio padre»

«New York è riuscita a produrre la cultura della congestione e ad esprimere la tecnologia del fantastico, un ideale che forse ha poco a che vedere con le regole della composizione architettonica, ma che riesce a produrre manufatti edilizi certamente non meno interessanti di quelli che escono dalle accademie, vecchie o nuove, delle nostre scuole di architettura»

Delirio a New York è un saggio di teoria dell’architettura scritto da Rem Koolhaas e pubblicato la prima volta nel 1978. Negli anni è diventato un vero e proprio best seller, con molte riedizioni in tutti i Paesi del mondo. Nel libro, ripercorrendo la storia urbanistica di Manhattan, Koolhaas cerca di spiegare il motivo per il quale una città quasi per nulla pianificata abbia dato forma alla nostra contemporaneità. Nella scombinata metropoli, nelle sue combinatorie declinazioni architettoniche, si è intrufolato un calabrese global: Peppe Voltarelli, cantautore, scrittore e attore, nel 1994 fondatore voce e leader de Il parto delle nuvole pesanti, band di culto del nuovo folk italiano, sette album da solista in studio, quattro colonne sonore e tre Targhe Tenco. 

Peppe Voltarelli [© Francesca Magnani]

Delirio a New York è stato il punto di partenza della straordinaria, avvincente, fantastica, grande corsa verso Lupionòpolis. «Una sera a Zurigo un amico architetto mi ha consigliato di leggere il libro di Rem Koolhaas, una sorta di storia urbanistica di New York che mi ha appassionato in quella congestione umana e culturale», racconta Voltarelli. «Ho pensato che un calabrese può perdersi e ritrovare il filo, le motivazioni edilizie e sonore per far vivere una lingua morta oltre i guardrail della legalità».

E così, armi e bagagli, l’epigono moderno di Otello Profazio, anima errante che dalla nativa Calabria si è trasferito a Firenze, dove ora risiede, concedendosi lunghi periodi in Francia, Germania, Belgio, e oltreoceano, si è trasferito all’ombra dei grattacieli nella Grande Mela. Lì è entrato nello storico EastSide Sound con l’ingegnere del suono Marc Urselli (tre Grammy Award, collaborazioni con Nick Cave, Lou Reed, U2, John Zorn) e Simone Giuliani, il produttore artistico e arrangiatore «che devo ringraziare per aver creato intorno a me l’atmosfera perfetta, le modulazioni joniche e i ritmi necessari a cantare bene». 

Il Calabrian man in New York in quel crogiuolo di culture, suoni, lingue ed etnie ha trovato musicisti «insuperbili» – Davin Hoff (contrabasso), Jake Owen (chitarre), Stephane San Juan (batteria), Mauro Refosco (percussioni) e la partecipazione di Eleanor Norton (violoncello), Dough Wieselman (sassofono e clarinetto) e Amy Denio (voce)- e l’ambiente ideale per la sua ricerca musicale: fare incontrare le sue radici con la modernità. 

Il dialetto greco-ionico, le melodie mediterranee, le asprezze delle terre silane vanno a braccetto con le raffinatezze del jazz o le suggestioni francesi stile Paolo Conte (Au cinémaBon bon bon), la tradizione delle ballad americane con tanto di slide in sottofondo (la dolcissima e appassionata Fiore) con il tango argentino (Marinari perduti), fino a far ballare la tarantella a Tom Waits (Nun signu sulu mai). I suoni e i ritmi dei cinque continenti in cui Voltarelli ha camminato, nel suo trentennale percorso, compaiono fusi in modo potente e inscindibile nelle canzoni. Sin dall’iniziale, struggente, emozionante riflessione di Mareniro, brano dalla dimensione globale che presenta la condizione di quanti cercano altrove una propria dimensione, ma non cessano di appartenere al mondo e agli affetti che hanno lasciato.

«La base di partenza è la mia lingua», spiega l’artista cosentino. «La memoria di alcune consonanti sporche che musicalmente non si piegano alle regole. Amo seguire le linee bianche al centro della carreggiata e mi piace andare piano. Seguo il blues, la terra, il fango, le mareggiate, le camicie dimenticate a casa di amici in Canada, il profumo dei negozi dei pakistani a Firenze, il vuoto cosmico della stazione di Sibari alle due di pomeriggio di febbraio, i disegni di mio padre, i suoi ostacoli nella nostra casa al mare messi a distanza regolamentare, gli allenamenti di Pietro Mennea: queste sono le linee guida sulle quali si muove la mia ricerca. È tutto molto faticoso come il peso di questa chitarra che normalmente sarebbe 6.4 kg e che una compagnia aerea me l’ha persa».

Peppe Voltarelli (foto Danilo Samà)

E non tragga in inganno il titolo del disco, La grande corsa verso Lupionòpolis. Non indica una fuga verso un luogo immaginario. Quella Lupionòpolis è una città reale e, in qualche modo, si ricongiunge con le radici di Voltarelli.

« Lupionòpolis è una piccola località del Paranà, in Brasile, a sud di Londrina. È un luogo vero dove miei lontani parenti hanno aperto un supermercato con il nostro cognome. Lupionópolis mi aspetta, è li che rinascerò come artista». 

La sua attitudine cosmopolita è testimoniata dai tantissimi concerti in 23 Paesi di tutto il mondo e dai dischi pubblicati in Europa, Argentina, Canada e Stati Uniti. È un nomade in continuo movimento. Anche realizzare questa intervista è stata complicata a causa dei suoi continui spostamenti fra Spagna, Italia, Repubblica Ceca. «Mi piace molto cantare all’estero, fare discorsi inventati sbagliando parole, spiegare le canzoni senza successo», sorride. «Ci sono molti amici che mi aspettano per ridere insieme. Non posso fare tardi devo andare da loro e poi quando riparto mi viene il magone perché non voglio lasciarli».

O, forse, questo continuo girovagare all’estero è dovuto al fatto che in Italia c’è poca attenzione nei confronti della musica popolare?

«Non parlo della scena folk, parlo in generale ed a titolo personale. Penso che ci sia troppa gente che canta perfettamente, che fa note esatte, melodie impeccabili con strumenti accordati alla perfezione e poi le parole, i testi sono troppo lunghi e non si fa in tempo a leggerli tutti. Bisognerebbe spogliarsi, rimanere nudi ed uscire per strada, cercare insomma l’uomo nuovo senza pantaloni a zampa di elefante e senza trucchi in faccia, eliminare tutti i riassunti e gli oggetti che affollano le nostre case».

La confezione speciale dell’album: in basso la patata della Sila avvolta in una carta velina fosforescente

A ogni concerto, agli spettatori, Peppe Voltarelli fa omaggio di un patata silana. Regalo molto prelibato che è contenuto anche nella confezione speciale con la quale viene venduto il formato fisico dell’album ideata e stampata dalla casa editrice TodoModo Publishing in collaborazione con l’etichetta discografica Visage Music, formata da una sportina contenente il cd dell’album, un libro con i testi delle canzoni e dieci racconti inediti. Oltre che ai concerti, la confezione speciale è acquistabile in rete (www.peppevoltarelli.eu/bandcamp).

La patata della Sila come simbolo della tua regione, ma anche del legame con la terra, con un mondo ancestrale.

«Le patate che ai concerti vengono vendute con il disco, il libro e la sportina sono avvolte in una carta velina fosforescente: una cosa delicata impalpabile come la fragilità di queste musiche. I deboli per difendersi hanno la carta velina. La terra ci aspetta».

Peppe Voltarelli (foto Danilo Samà)

La tua grande corsa è cominciata nel 1990 con il Parto delle nuvole pesanti. Hai attraversato mezzo mondo, sei entrato in contatto con le culture più disparate. Hai fatto cinema, teatro, televisione, hai scritto libri, hai una intensa attività concertistica. A parte Lupionòpolis, dove vuole arrivare questa grande corsa?

«Dopo Lupionópolis mi piacerebbe lavorare su brani strumentali, scrivere ancora, visitare il nord Europa, il mare del Nord, tornare in Argentina, andare in Russia e poi finalmente a Mirto-Crosia, il borgo costiero del Basso Jonio Cosentino dove sono cresciuto, per provare anch’io a saltare quegli ostacoli allineati nel giardino della nostra casa al mare da mio padre che era istruttore di atletica leggera».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *