Domenica 19 febbraio, all’età di 86 anni, metterà piede sul prestigioso palco della Scala Milano, primo artista a portare la canzone d’autore nel tempio dell’opera. «È il teatro simbolo che contiene la nostra grande musica, l’Italia ha dato il suo meglio con la lirica. Non ci sono mai stato da spettatore ed è un’emozione pensare ai fantasmi che sono passati da qui»
Il suo primo ricordo privato è «un’aria di Giuseppe Verdi che, incantandomi, mi ha fatto cadere dal cavallo a dondolo, semisvenuto». Adesso Paolo Conte spera di non perdere i sensi quando domenica 19 febbraio, all’età di 86 anni, metterà piede sul prestigioso palco della Scala Milano, primo artista a portare la canzone d’autore nel tempio dell’opera. «Ho suonato in teatri prestigiosi come il Barbican a Londra, la Philharmonic a Berlino… ma la Scala fa sognare. È il teatro simbolo che contiene la nostra grande musica, l’Italia ha dato il suo meglio con la lirica. Non ci sono mai stato da spettatore ed è un’emozione pensare ai fantasmi che sono passati da qui».
Dopo quell’incontro traumatico infantile, il “canzonettista” astigiano non ha più seguito la lirica: «Mi sono concentrato sulla sinfonica. Grazie alla tv da vent’anni ho riscoperto l’opera. Sono un verdiano». Prima ha inseguito altri fantasmi: Sidney Bechet, celebrato nella canzone Gong-oh, Jelly Roll Morton, Louis Armstrong. «Il jazz era una musica da smontare per trovare i punti di raccordo delle armonie, dei ritmi, delle melodie: il nostro era quasi un lavoro da meccanici, ma io ho una passione particolare anche per Dvorak e per César Franck, che anticipa di molto Gershwin. Ma il più grande in assoluto, alla fine, mi pare proprio Armstrong, che ha tutte le doti che spettano ai musicisti: senso armonico, senso melodico, senso ritmico. La natura lo ha dotato di tutto questo in grande misura. Senza essere colto, riusciva a capire il linguaggio povero facendolo diventare ricco, miscelando tutte le culture musicali già stratificate e aggiungendovi una vocalità primitiva».
Il mondo dell’Opera, fatta eccezione per la canzone Dal loggione, tra l’altro dedicata alla “zia di Benigni” per una ripicca a una battuta del toscanaccio («a me piace la moglie di Paolo Conte»), è stato soltanto sfiorato dalle canzoni dell’astigiano. Il cantore delle giarrettiere e delle nebbie padane, ha raccontato il Novecento attraverso gli ambienti fumosi dell’Harry’s Bar e dei Mocambo di provincia, le Topolino amaranto, le fatiche di Bartali, la quotidianità di grotteschi personaggi da balera. Arte povera, in fondo, come il lamento del kazoo, che agli inizi, simile a una orchestrina fantasma, accompagnava il pianoforte di Conte e che ancora affiora qua e là come un grido sempre più caldo e straziante.
«Il Novecento è stato un secolo che ha vissuto di corsa inseguendo la sua propria classicità nelle arti, ma senza mai trovarla perché si sono susseguite un’avanguardia dopo l’altra. Il mio punto di riferimento è stata l’America, e l’America, in realtà, vive di Novecento. Per il futuro bisognerà vedere se ci saranno avanguardie o se tutto scorrerà nel binario del tempo».
Nella scaletta non potrà mancare Azzurro, il brano italiano più famoso al mondo insieme a Volare e ‘O sole mio. «Mi ha colpito sentirla cantare dai balconi durante il lockdown. È stata molto importante per me e non l’ho mai dimenticata. Allo stesso tempo però non ne sono stato condizionato stilisticamente. Celentano era l’interprete ideale. Se l’avessi cantata io, non la conoscerebbe nessuno… C’era chi voleva diventasse inno nazionale, mi avrebbe fatto piacere ma avrei detto di no».
Un’altra canzone immancabile in scaletta è Via con me: «Ho sempre pensato di comporre qualcosa di superiore, ma già queste sono un bel punto di arrivo, sono soddisfatto», riferendosi ad Azzurro e Via con me, che da un paio di anni ha superato il successo della prima. Tra le migliori, però, indica «Gli Impermeabili, dal punto di vista musicale, dal punto di vista delle parole penso a Genova per noi».
Azzurro recentemente è stata portata da Colapesce e Dimartino sul palco dell’Ariston insieme con Carla Bruni nella serata delle cover del Festival di Sanremo. Dove Paolo Conte non ha mai messo piede. «A me direttamente non lo hanno chiesto (allo staff sì, ma l’offerta è stata considerata nda). Cosa potrebbero darmi, cosa c’è di superiore alla Scala?».
Il concerto scaligero è un riconoscimento della statura iconica raggiunta da Paolo Conte nel panorama musicale del nostro Paese e del suo apprezzamento internazionale. Se il New York Times loda la «voce ruvida da fumatore, lo stile pianistico che spazia dall’honky-tonk al tango palace e la visione del mondo da consumato romantico», il Wall Street Journal osserva che «ascoltare queste canzoni è come sentire nelle orecchie un film di Fellini» e Le Figaro che «anacronistico per alcuni, intramontabile per altri, l’italiano è diventato un’istituzione senza aver cercato di diventarlo. Forse il suo eterno atteggiamento rilassato gli ha conferito uno status speciale sulla scena musicale internazionale».
Alla Scala Conte sarà accompagnato da un ensemble orchestrale di undici musicisti: Nunzio Barbieri (chitarra e chitarra elettrica), Lucio Caliendo (oboe, fagotto, percussioni e tastiere), Claudio Chiara (sax Contralto, sax tenore, sax baritono, flauto, fisarmonica, basso e tastiere), Daniele Dall’Omo (chitarre), Daniele Di Gregorio (batteria, percussioni, marimba e piano), Luca Enipeo (chitarre), Francesca Gosio (violoncello), Massimo Pitzianti (fisarmonica, bandoneon, clarinetto, sax baritono, piano e tastiere), Piergiorgio Rosso (violino), Jino Touche (contrabbasso, basso elettrico e chitarra elettrica) e Luca Velotti (sax soprano, sax tenore, sax contralto, sax baritono e clarinetto).
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