Interviste

Paolo Benvegnù: deluso dagli esseri umani

– Esce “È inutile parlare d’amore”, il nuovo album del cantautore-poeta-filosofo milanese pensato come un film, un romanzo di formazione
– «C’è un invito a usare meno la testa e più il sentire, che è guidato dal ventre. Ecco perché è un disco femminile, perché è un disco ventrale»
– «Stiamo sovvertendo ogni tipo di regola di questo pianeta. Siamo molto istruiti, ma poco educati sentimentalmente»
– «Quelli che facevano l’indie volevano i soldi. Qualcuno li ha fatti, altri no, sono poeti minori. Ora il mondo è popolato di poeti minori. Sono onorato di esserlo»
– «Ortigia è uno dei miei posti del cuore. La prima volta che ci sono arrivato, ho avuto una folgorazione… mi sono sentito un greco antico»

Paolo Benvegnù dice di «scrivere canzoni brutte, che non possan piacere a tutti e tutte». Piuttosto che «fare musica che fa cacare per guadagnare», compone canzoni intelligenti, che però non piacciono a tutti e tutte, non vanno in mondovisione e neanche in televisione e in radio. Né tenta di procurarsi «frasi che non c’entrano niente, ma piaccion tanto alla gente, che ci si può identificare e scaricare e poi comprare». Perché Paolo Benvegnù è il Salieri della canzone d’autore, «il ghigno beffardo di Pippo mentre porta a casa Topolino ubriaco».

Canzoni brutte, brano contenuto nell’album È inutile parlare d’amore, in uscita il 12 gennaio in digitale e il 19 gennaio in cd e vinile, «è una ammissione disfunzionale», sostiene il cinquantottenne cantautore milanese. Ma era David Bowie a dire che «per essere un artista bisogna essere disfunzionali». E, secondo questa tesi, le canzoni brutte diventano – e. in effetti, lo sono – belle.

«No, no, nella scrittura primigenia sono sicuramente canzoni disfunzionali», ride Benvegnù all’altro capo del telefono. «Io sono disfunzionale, quando vado alle Poste ridono, sia le persone che stanno attendendo sia gli impiegati. Sono fuori asse. Mi piacerebbe dirti che è una scelta, ma non lo è, perché son proprio così, una sorta di Jacques Tati senza alcun senso della realtà. Forse ho un’esistenza più pertinente nell’altrove». 

Negli ultimi anni l’inutilità e l’ineluttabilità sembrano accompagnare il cantautore, poeta, filosofo, intellettuale. I due volumi di Inutili premonizioni, l’EP Solo fiori in cui si muove «fra l’inutile e l’impossibile». Mentre in due canzoni del nuovo lavoro – Tecnica e simbolica (con il featuring di Brunori Sas) e Our Love Song – ripete che «non esiste un domani». Una sorta di pessimismo cosmico.

«Non esiste un domani perché è un lungo oggi, è un lungo ieri», ride ancora. «Se non agiamo con lo sguardo dell’ulteriore, se rimaniamo nella realtà che, peraltro, vediamo dalla nostra soggettiva. Noi ragioniamo soltanto nel dominare col nostro sguardo qualcosa che vediamo in una certa maniera, ma se fossimo api, cani, pesci, lo intenderemmo e lo sentiremmo in maniera totalmente diversa. Allora la questione è: come facciamo a definire una verità? Lo facciamo attraverso la tecnologia, creandoci utensili da ventimila anni prima di Cristo fino adesso. Però quando questo prende il sopravvento, possiamo dirci ancora viventi o, come direbbe Garimberti, siamo figuranti antropomorfi? Non siamo più noi. Se per immaginare ho bisogno di qualcuno che faccia un programma per dirmi come immaginare, non possiamo definirci ancora umani. La scrittura di questo disco è non conscia, e come tale è nata per disobbedire a questo status. È un invito a disobbedire. Potrebbe essere persino un disco politico, nel senso proprio di movimento all’interno della polis. Ecco, un’idea in più all’interno della polis».

La copertina dell’album che contiene 12 tracce. Marlene Dietrich, San Paolo, I Miserabili e Heidegger con “In der Nicht sein”‘ sono elementi dell’album che Benvegnù consiglia di ascoltare di notte perché è un disco notturno

Ma È inutile parlare d’amore, come recita il titolo, non vuole essere un disco politico. Vuole parlare dell’amore. E se alcuni brani dell’EP Solo fiori – come 27-12 in duetto con Neri Marcorè e Our Love Song, un rock blues psichedelico che riecheggia gli Iron Butterfly – trovano una collocazione nel nuovo lavoro, non accade per Italia pornografica.

«Quello era uno sketch», sottolinea Benvegnù. «Mentre Canzoni brutte, che diciamo è nella stessa giurisdizione, mi serviva per denunciare il tradimento rispetto a certo tipo di purezza, perché nel momento in cui tu stigmatizzi una cosa usando gli stessi stilemi sei un paraculo». 

In ben sette brani su dodici ci sono riferimenti al mare.

«È un luogo che non ho mai frequentato, ma che sento dentro di me. Ne ho timore, nel senso che lo voglio tenere come desiderio e non frequentarlo significa agognarlo. Spero un giorno di raggiungerlo, specialmente l’oceano. Come un vecchio mi piacerebbe agli 80 anni con una piccola barchetta a vela e non tornare più. Felicemente, come i vecchi cani: quando devono andare vanno, sanno dove andare».

Paolo Benvegnù, cantautore milanese, classe 1965 (foto Mauro Talamonti)

Cosa rappresentano i pescatori di perle, protagonisti dell’omonimo brano. Sopravvivono in apnea per diventare «come il vento, impossibili da decifrare. E quando sarà il tempo vi aiuteremo nuovamente a pensare. E i pescatori di perle saranno liberi di volare. Di diventare stelle».

«Due sono i fattori che mi hanno portato a scriverlo. Uno è la frequentazione dei Miserabilidi Victor Hugo, dove c’è questa bellissima volontà della Provvidenza, di Dio, di mettere le cose a posto per i non abbienti, che chiaramente non avviene. E poi c’è di mezzo un’altra frequentazione che ho avuto nel tempo: gli educatori. Incredibile come la parola educatore, in questo momento, sia percepita come qualcuno che ti vuol far capire una cosa che tu non vuoi capire. In realtà, è semplicemente qualcuno che ha più esperienza di te in alcune situazioni e che ti vuole dare dei consigli di sopravvivenza. L’idea è perché non riusciamo a fidarci di coloro i quali si sporgono per noi sugli abissi o si bruciano per tutta la vita semplicemente per dirci che se tu fai questa scelta devi esserne conscio. Ecco i pescatori di perle sono questi: un po’ i Miserabili, un po’ i poeti».

L’album è pensato come romanzo di formazione, la sceneggiatura di un film, eppure ogni brano sembra un “piccolissimo fragilissimo film”.

«Per certi versi lo è», sorride Benvegnù. «In realtà, come non mi capitava da tanto tempo, questi brani mi sono sgocciolati uno dietro l’altro e uno dentro l’altro. Poi ho dato una forma al pre-pensiero che c’è dietro tutto questo e mi sono immaginato un romanzo, una sceneggiatura, i contesti in cui si girano le scene di questo film. Però è vero che sono piccole intuizioni che nell’ultimo anno e mezzo si sono spinte oltre i miei limiti di fantasia e d’immaginazione». 

OSPITI: Brunori Sas (a sinistra) canta nel brano “L’oceano”, mentre Neri Marcoré duetta con Benvegnù in “27-12”

Se fosse un film, a quale regista ti ispireresti? Buñuel?

«Mi sono immaginato una specie di movimento della cinepresa come in un film di Buñuel. Hai presente il film Il fascino discreto della borghesia, quando s’incrociano due persone e la macchina che seguiva quello che ti sembrava il protagonista cambia soggetto».

Il brano Our Love Song si apre con Ismaele che significa “Dio Ascolta”. Nelle due splendide tracce conclusive All’origine del mondo e Alla disobbedienza, ti rivolgi a un essere indefinito che è prima «l’incendio impossibile che salverà il mondo» e poi «la luce e l’ombra».

«C’è in me, in questo momento della mia vita, la volontà di trasformare l’“io” in “noi”. Quando dico “tu” c’è di mezzo una mia intenzione che spero possa essere recepita dall’altro. Our Love Song rer me è il passaggio tra possibile e impossibile. Dio ascolta l’uomo e in questo contesto, se ci pensi, Ismaele è l’unico testimone della nave di Moby Dick, è colui che transita nell’oceano di sensi accolti nel mio brano: racconta l’amore del corpo, racconta l’appartenenza. Andare verso l’altro senza armi per certi versi è un naufragio, non sai cosa aspettarti. Specialmente in questo periodo abbiamo questa mancanza di fiducia verso l’altro. Non solo verso una persona umana, ma anche verso qualcosa di inanimato, come la natura, l’ambiente. Quando nella parte finale di Alla disobbedienza c’è quella finta sinfonietta con gli archi, il mio sentimento sarebbe quello di abbracciare tutta l’umanità e andare verso qualcosa che dovrebbe essere più coerente al nostro status di animali. Un invito a usare meno la testa e più il sentire, che è guidato dal ventre. Ecco perché è un disco femminile, perché è un disco ventrale».

(foto Mauro Talamonti)

È un invito a restare umani.

«Sì. Credimi non è che ho una preoccupazione, io ormai sono andato, quello che dovevo fare l’ho fatto e anche male. E non è che penso a mia figlia o alle generazioni future. È come se l’umanità, a un certo punto, si stesse comportando, maschilmente parlando, pensando che le donne non abbiano più attinenza con le fasi della Luna per poter essere pronte a creare nuovamente. Come se stessimo negando leggi universali. Questo è abbastanza preoccupante, non tanto per il genere umano, ma per tutto. Stiamo sovvertendo ogni tipo di regola di questo pianeta. Sono deluso dagli esseri umani e, in primis, da me. Siamo molto istruiti, ma poco educati sentimentalmente».

Paolo Benvegnù con gli Scisma

Tu resti l’ultimo anello di congiunzione fra la canzone d’autore e la musica indie, quella doc. Come i CCCP, sei rimasto fedele alla linea, non hai mai tentato di seguire la scia di Manuel Agnelli, Marlene Kuntz che si sono aperti a Sanremo. Non c’è più l’indie, o almeno l’indie degli anni Novanta, quello di Afterhours, Massimo Volume, Ritmo Tribale e Scisma, appunto. Tu ha fondato gli Scisma a 28 anni, poco dopo aver capito che ti sarebbe piaciuto provare a fare concerti migliori di quelli che andavi ad ascoltare. Perché l’indie si è dispersa?

«Perché tutti quelli che facevano indie volevano i soldi. Qualcuno li ha fatti, gli altri no, gli altri sono poeti minori. Anche ai tempi con gli Scisma, se non ci fossero stati i Nirvana che han venduto così tanti dischi, mica avrebbero messo soldi sulle band. In quegli anni c’è stata la corsa all’oro, l’assalto al treno. Gli Scisma sono stati sull’ultimo vagone. Ma quando mi dicono: “Che bello, quante idee”. Non è vero, c’erano più soldi. Mi dispiace dirlo. C’erano sì tante idee, ma sono state viste un po’ di più perché c’erano più soldi per vedere. Adesso, se ci pensi, il mondo è popolato di pittori e poeti minori. Io sono onorato di questo. È come se in tre o quattro hanno l’automobile vera, gli altri hanno una Trabant. È fantastico come il turbo-capitalismo sia uguale al comunismo reale».

Negli anni Sessanta pensavo che fosse tutto più semplice e che gli uomini fossero veramente lanciati verso un cambiamento che rendesse tutto molto più felice, peccato vedere questa contrazione di intenzione

Paolo Benvegnù

Anche se sono davvero pochi quelli che possono essere definiti poeti.

«Sì, sì, sì. Io sono più per le poetesse, nel senso che la poesia della creazione in carne e sangue è una cosa che sottovalutiamo sempre e quella incredibilmente non va neanche spiegata. Mi vien da pensare che se riuscissimo a viverla meglio di come la immaginiamo, sarebbe molto più bello. Non è un discorso strettamente legato al rispetto del femminile, ma al rispetto verso la creazione, la vita, l’universo, tutto quello che ci ha preceduto e sarà. È un peccato. Negli anni Sessanta pensavo che fosse tutto più semplice e che gli uomini fossero veramente lanciati verso un cambiamento che rendesse tutto molto più felice, peccato vedere questa contrazione di intenzione».

Ho visto le prime date del tour – Firenze il 20 gennaio, poi Torino, Brescia, Roma e Modena – non c’è la Sicilia. Peccato, avresti migliorato la frequentazione con il mare, anche se qui non c’è l’oceano.

«Se non mi trovano una data in Sicilia, mi metto dentro un furgone e ti vengo a trovare. Ortigia è uno dei miei posti del cuore. La prima volta che ci sono arrivato, ho avuto una folgorazione… mi sono sentito un greco antico».

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