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Omar Hakim: così nacque “Let’s Dance”

– Il leggendario batterista con la moglie Rachel Z in concerto a Palermo (29 ottobre) e Catania (lunedì 30) per rendere omaggio a Wayne Shorter
– Ha inventato il ritmo dello storico album di David Bowie. «Fu merito di una batteria». Da allora è il session man più richiesto dalle star 
 – La pianista: «La “Z”? È la rimanenza del mio cognome italiano: Nicolazzo. Fu Mike Manieri a suggerirmi di usare un nome d’arte» 
Omar Hakim, 64 anni

Rachel Z e Omar Hakim, che coppia formidabile. Nella vita e nell’arte. Soltanto per citare le loro collaborazioni ci vorrebbero due pagine. Si va dagli Steps Ahead a Peter Gabriel per la prima, da Miles Davis a Madonna per il secondo. In comune hanno un tetto, una famiglia e Wayne Shorter, compianto maestro per entrambi, al quale dedicano un omaggio che presentano domenica 29 ottobre al Teatro Golden di Palermo e l’indomani, lunedì 30 ottobre, al Metropolitan di Catania in apertura delle stagioni concertistiche di Nomos e Catania Jazz.

Wayne Shorter, scomparso lo scorso marzo, è stato per entrambi anche l’occasione per venire a suonare in Sicilia. La pianista nel 1995 con la band del sassofonista, il batterista molto prima, nel 1984, con i Weather Report. Se Rachel Z avrà modo di tornare in Sicilia con la formazione di Stanley Clarke, Omar Hakim da quel leggendario concerto al Teatro antico di Taormina non si è fatto mai più rivedere. Nel frattempo, ha cominciato una carriera che lo ha portato a essere uno dei session man più richiesti e influenti. Ci sono pochi batteristi che hanno avuto lo stesso impatto sulla musica popolare come il sessantaquattrenne musicista newyorkese. Nessuno potrebbe rivaleggiare con Hakim per destrezza, professionalità e ritmo. È stato lui a definire il suono di Let’s Dance di David Bowie nel 1983 e la sua miscela di jazz, funk e disco ha influenzato il suono degli anni Ottanta. 

«Ricordo che il suono della batteria era molto insolito», racconta Hakim ricordando le session con Bowie. «L’ingegnere aveva questo rullante Ludwig Black Beauty che faceva parte dello stock dello studio. Allora gli studi avevano il loro stock di batteria. Era un genio. Il modello di batteria in Let’s Dance è stato davvero un’improvvisazione. Sai, in genere, con i dischi pop, i battiti di batteria sono come modelli a due battute, modelli a quattro battute. Let’s Dance era uno schema di otto barre. È molto sottile, ma se torni indietro e ascolti le due frasi sentirai che è davvero una frase a otto barre. E penso che questo gli abbia dato una base interessante».

Dopo il successo di Let’s Dance il telefono non ha smesso di squillare e, presto, Hakim è diventato uno dei session man più disputati al mondo. Dire Straits, Anita Baker, Sting, Mariah Carey, Madonna, Bruce Springsteen, Herbie Hancock, Chic, Michael Jackson, Bryan Ferry, Everything but the Girl, Marcus Miller, Pino Daniele, Jovanotti e Daft Punk sono soltanto alcune delle star che hanno voluto questa forza della natura alla loro corte.

Quando Mino Cinelu, inizialmente parte di questo omaggio a Shorter, ha dato forfait, Hakim si è messo subito a disposizione della moglie Rachel, mettendo le sue bacchette e il suo ritmo al servizio della causa e della band – che vede il norvegese Bendik Hofseth al sassofono e il talento newyorkese Jonathan Toscano al basso –, e trasformando i due concerti siciliani in un evento.

Rachel Carmel Hakim Nicolazzo, meglio nota come Rachel Z, 60 anni

Pianista accreditata nel panorama internazionale e sex symbol, Rachel nasconde nella “Z” le origini italiane. «Quando suonavo con gli Steps Ahead, Mike Maneri mi ha dato il nome perché ha detto che il cognome Nicolazzo mi avrebbe fatto impazzire e che avrei dovuto scriverla ad ogni intervista. E aveva un po’ ragione. La “Z” ha reso più facile», ride la sessantenne pianista e tastierista newyorkese, padre calabrese e madre franco-italiana.

Madre cantante d’opera, Rachel Z ha cominciato a suonare il piano sin da piccola. A 16 anni, poco dopo l’iscrizione alla Metropolitan Opera House perché potesse imparare a cantare e seguire le orme della mamma, Rachel si stancò perché aveva altri sogni: diventare una pianista jazz. Conseguenza di un colpo di fulmine per Miles Davis. 

Inizi difficili, anche perché era arduo per una ragazzina trovare un posto in band maschili. Finché fu lei a organizzarsi in proprio. «Nella mia band non volevo ragazze. Non volevo ragazze intorno a me», ricorda. «Ero molto distaccata dalla comunità femminile. Mi comportavo come un maschietto. Forse per questo motivo ho finito per suonare la fusion, una sorta di musica macho. Amavo Herbie Hancock, Chick Corea e anche gli Steely Dan. La fusion mi piaceva perché aveva una grande armonia».

Rimasta a corto di quattrini, decise di portare una demo a Mike Mainieri, perché le avevano detto che lui non li cestinava. E così fu. È con gli Steps Ahead dei fratelli Manieri che Rachel fa i primi passi, per poi brillare in tour con Peter Gabriel e sbocciare accanto a Wayne Shorter nelle opere premiate con Grammy. 

«Con Wayne ho lavorato per tre anni. Per me era un mito», racconta Rachel. «Il primo disco che ho amato è stato Miles Smiles (nel quale Wayne Shorter suona con Miles Davis, Hancock, Ron Carter e Tony Williams, nda). Ero così influenzata da Miles che quando incontrai Wayne mi comportai come una bambina: tutto quello che volevo era parlare con lui di tutta quella musica», ricorda la pianista. «Wayne era una persona così spirituale e un grande leader. Mi ha aiutato a crescere in molti modi. Mi ha fatto uscire dallo stato di ego. Ho dovuto abbandonare quel tipo di atteggiamento arrogante, che ho dovuto avere per sopravvivere come donna. Ho dovuto credere in qualche modo di essere la migliore, per arrivare anche da qualche parte e poi ho dovuto annullare tutte quelle presunzioni per essere umile. Molti di noi giocatori passano attraverso il gioco di troppe note, troppo velocemente, e non sapendo perché le stiamo suonando. Wayne aveva tutte queste armonie complesse e andava da un accordo all’altro dicendomi: “Cosa ne pensi?”. Non riuscivo nemmeno a prendere una decisione perché era troppo incredibile. Ma poi, alla fine ho imparato perché diceva “controlla la sensazione o la direzione di questi accordi. È una sensazione di felicità? O è una sensazione di paura?”. Così ho imparato a connettermi all’armonia e che il jazz riguardava il cuore, piuttosto che l’ego o avere le migliori costolette». 

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