Il racconto di una visita a Graceland, la casa museo dove è sepolto “The King of the rock’n’roll”. Quarantacinque anni fa Presley moriva, e ogni anno, il 16 agosto, la residenza di Memphis diventa meta di pellegrinaggio dei fan
Sciarpe e cinture, borchie e anelli con diamanti da 16 carati. Dischi d’oro e di platino. Elvis Presley ne ha venduti tanti di dischi che, messi in fila, possono fare il giro dell’Equatore due volte e mezzo. Quattordici televisori sono sparsi in tutti gli angoli della casa, circondati da teste di tigre, e tante bandiere americane ricavate da stracci di lana ruvida. Questa è Graceland, al numero 3734 di Elvis Presley Boulevard a Memphis, la casa che il “re del rock’n’roll” comprò nel 1957 per centomila dollari.
Graceland. Era la residenza di un medico che di dollari ne chiedeva appena 35mila. Pur di accaparrarsela, così sperduta (allora) nel verde, così diversa dalle case popolari dove c’era un gabinetto ogni dodici famiglie, Elvis la pagò il triplo. La rimodellò, aggiunse e tolse stanze. Ora ne ha diciassette, ma arrivò ad averne ventitré. Fece costruire una piscina nella quale non fece mai il bagno, un ingresso a tempio greco, introdotto da quattro colonne bianche che suggeriscono imponenza e profondità. Dentro furono imposti i “colori Presley”: oro, molto rosso, viola pallido sulle sedie. In alcuni angoli c’è tanto nero e strisce gialle, specie nella “sala della giungla”, un salotto dove si incideva musica e si seducevano ragazzine, fra zanne di elefanti e pantere impagliate. E poi velluti, specchi e tappeti pelosi sul pavimento, alle pareti e sul soffitto.
La “Stanza della televisione” con tre schermi incastonati uno di fianco all’altro in un pannello dominato dai colori blu e giallo. Qui Elvis era solito seguire contemporaneamente tre partite di football: un’idea, raccontano i biografi del cantante, rubata al presidente americano Lyndon Johnson.
E poi il biliardo. Ha ancora il panno stracciato. Prima di morire Elvis Presley, ubriaco, tentò un tiro assassino. Lo strappo è rimasto lì.
Graceland è il suo mausoleo. Dopo la Casa Bianca è l’abitazione più visitata d’America: 600mila persone l’anno. Centocinquantamila in più di quelli che ogni anno fanno il tour nelle stanze di Joe Biden. Con la differenza che la stanza ovale si può vedere gratis, l’ingresso nel regno del kitsch costruito da Elvis costa 70 dollari. Elvis, sepolto con i genitori e la nonna Minnie Mae nel “Giardino della meditazione” a fianco della casa, continua dunque a essere una irresistibile “macchina da soldi” anche dopo la morte: solo gli incassi assicurati da Graceland, segnala il quotidiano Washington Post, superano i 45 milioni di dollari annui.
Il mausoleo. La visita dura obbligatoriamente venti minuti, perché la folla preme. Si parla a bassa voce. Si sussurra. Perché Elvis “riposa”. In un angolo verde, sotto un Cristo di marmo di Carrara, al centro di un emiciclo su una collina spuntata. Sulla tomba ci sono i biglietti d’amore delle sue fidanzate, le inconsolabili che fanno il pellegrinaggio a Graceland due o tre volte l’anno. Tra rose, camelie e gigli di plastica, si leggono i “grazie” di quelle che fanno l’amore, la notte, con il ritratto di Elvis a capo del letto. E per sapere se è vero o no, basta leggere Lupo rosso, lupo rosso, libro di racconti di W. P. Kinsela, giocatore di baseball mediocre, ma scrittore di talento. Sua moglie non raggiunge l’orgasmo se non sotto una gigantografia illuminata di Elvis.
Il pellegrinaggio. Il 16 agosto cadrà il quarantacinquesimo anniversario della morte del “re”. Verranno a decine di migliaia, in pellegrinaggio, con le candele accese, tutta la notte, a piangere, ballare, cantare, conoscersi, confessarsi, toccarsi, consolarsi. Alcune, con il passare degli anni, sono sempre più grasse e colorate. Prima della visita sono nervose. Ma scendono la collina di Graceland rilassate, correndo verso i mariti che le guardano e lasciano fare, comprensivi, quasi complici di un tradimento così profondo da essere innocente. In attesa di questo 16 agosto, data fatale, tutti gli alberghi di Memphis sono prenotati nel giro di cento miglia, e tutti i parcheggi sono occupati da macchine messe lì a tenere il posto, e tutti i fiorai, che già non hanno fiori, fanno prenotazioni in tutto il Paese.
La città sta rinnovandosi. Poiché è terreno sacro, come una chiesa, e i luoghi dove “Lui” è passato, vissuto, dove ha cantato, sono sparsi per tutti i quartieri e non si trova una cicca per terra da nessuna parte: Memphis, grazie alla devozione degli adoratori di Elvis, è stata votata la città più pulita d’America.
«Elvis è vivo». A Graceland, secondo la leggenda, si cela il mistero sulla morte di Elvis. Al secondo piano della residenza è vietato accedere, perché «privato». Così recita il depliant. La gente, invece, conosce quale è la verità. Non si accede perché nessuno vuol far sapere che Elvis è vivo. Ha il cervello danneggiato dall’abuso di droghe, viene tenuto in vita da tre infermiere durissime. Ogni tanto lo fanno uscire. C’è chi gli ha dato un passaggio in auto e chi lo incontra a Beale Street che ascolta jazz. La notte, se si guarda bene, è davanti al suo monumento e dà le spalle al negozio dei fratelli Lansky, dove, decenni fa, faceva incetta di brillantina per il ciuffo. Lì ordinava, solo lui, le calze gialle e verdi per le quali veniva inseguito dai suoi compagni di scuola che lo picchiavano e gli urlavano «finocchio».
Auto e aerei. La Cadillac rosa, la Dino Ferrari, la Stutz Blackhawk nera da gangster, e le moto cattive, Harley Davidson Electra Glide, Norton nero fumo, una Vespa, e una Honda 850 un po’ rachitica, sono nel garage ai piedi della collina, per il quale si paga un biglietto supplementare. Una volta dentro si possono vedere anche il distributore di benzina, quello originale, dove Elvis si fermava a prendere una Coca, e dieci metri della Highway 51 immortalata in una canzone. C’è anche un cane impagliato, l’Hount dog del pezzo che è stato il suo più grande successo. Vicino al garage, se si attraversa una sala d’aspetto con tanto di orari aerei, biglietteria e metal detector, si entra nei due jet privati, uno per la troupe e uno tutto per lui. Hanno le tazze del cesso con il coperchio d’oro e le porte trasparenti. Il letto a tre piazze ha la cintura di sicurezza: al “re” piacevano i giochi per aria…
Gli abiti da dio. I costumi, divisi in sezioni, un po’ qui un po’ là, incluse le mutande e le calze, segnano le tappe dell’ascesa di Elvis verso il Cielo. È la parte migliore della visita a Graceland. La tuta «bianco-semplice-proletario» racconta i successi locali da ex camionista.
I “jump suits” da paracadutista, modelli aquila americana con l’occhio sbarrato dell’uccello imperiale, dicono di quando divenne ricco e celebre da costa a costa. Richard Nixon, allora presidente degli Stati Uniti, lo invitò alla Casa Bianca per avere l’onore di stringergli la mano. Elvis ci andò da pari a pari. «Cantami Hound Dog», gli chiese Nixon. «Elvis canta solo per soldi», rispose il suo agente, il mefistofelico colonnello Tom Parker. Elvis, secondo il suo stile, non si eraji inchinato al Potere. I fans lo seppero: lo amarono ancora di più. Al Potere diceva no, ma cantava gratis per gli orfanotrofi e faceva molta carità: ogni Natale si portava a casa duecento o trecento miserelli e a ognuno faceva un regalo e offriva una fetta di tacchino.
Infine, in fondo alla due gallerie-siluri, ai due sottomarini di cemento, asse portante di Graceland, nelle vetrine a prova di pallottola contro i ladri di souvenir, troneggia, stesa in volo mistico, la “veste del dio Sole”, il dio adorato dagli aztechi, reincarnatosi in Memphis, Tennessee, nelle sembianze del figlio di Gladys e Vernon Presley. La “veste” è un lenzuolo di seta, coperto di disegni d’oro, diamanti e lapislazzuli, di smeraldi e fili d’argento. Elvis ne volle una uguale al dio.
Neanche i Beatles, neppure i Rolling Stones arrivarono a una apoteosi come questa. Presley indossò la “veste” quando non c’era aggettivo sufficiente a descriverlo, libretto d’assegni grosso abbastanza per pagare una sua serata. Era l’uniforme di quando “The Pelvis”, il “moto ondoso del sesso”, pesava già 120 chili, tutti di cheeseburger, aspirati di notte. Respirava male, sudato come un manzo. Inghiottiva cinquecento pillole al giorno. Credeva di essere un Cristo. E se non era Lui, diceva di avergli parlato. Cadeva in trance. Non sapeva chi fosse veramente. Era diventato impotente.
Le armi. A chiudere, le sue pistole, dalla Colt alla Beretta. Elvis era amico della legge e dell’ordine, a tutti i costi. Non amava i neri. E tutti i distretti d’America lo sapevano. Così, venti metri di ricordi sono un museo di attestati, memorabilia, diplomi di Poliziotto Ordinario, di Sceriffo Ideale, di Super Uniforme Blu di ogni città degli Stati Uniti.
Graceland si apre con il giallo, colore dei dischi d’oro che lo hanno reso famoso, colore del Sole e di dio, e si chiude con il fuoco, arma degli dei.
Riposi in pace, il “re”.