Storia

Marracash, il “king del rap” dal sangue siciliano

Lunedì 10 ottobre al PalaCatania il megashow del rapper nato a Nicosia (Enna): uno schermo alto più di 5 metri, proiezioni in 3D ed altre sorprese scenografiche. «Questo è un tour molto ambizioso, che rispecchia due dischi molto ambiziosi. L’obiettivo è quello di definire un nuovo standard nell’ambito dell’urban in Italia e il concetto di show nell’hip hop. Ho cercato di coniugare la musica all’effetto spettacolare, in modo tale che riesca anche a stupire. Questo live è una figata!». «Il Premio Tenco spero che sia un grandissimo segnale non solo per la mia carriera, ma per tutto il genere»

Marracash, ovvero Fabio Bartolo Rizzo, milanese nato a Nicosia (Enna) il 22 maggio 1979. Il nomignolo deriva proprio dai suoi tratti somatici, tipici della gente del profondo Sud: capelli neri ricci, occhi scuri. «Mi chiamavano marocchino, da lì è arrivato Marracash. Prima mi arrabbiavo, poi l’ho adottato», spiega con cadenza meneghina, anche se la Sicilia resta nel cuore e nell’anima.

«Sono figlio di immigrati siciliani, figlio delle case di ringhiera senza i sanitari, dei viaggi in macchina interminabili, carichi come somari», racconta. «I miei genitori parlano ancora in dialetto ed ho molti parenti in Sicilia, da bambino trascorrevo tre mesi all’anno a Nicosia. Resto legato all’isola, vado spesso nel Siracusano, dove ho molti amici: li ho conosciuti qui, loro sono fuggiti dalle palazzine in cui vivevo io».

Marracash, ovvero Fabio Bartolo Rizzo, milanese nato a Nicosia (Enna) il 22 maggio 1979 (foto di Sergione Infuso)

Avevo tre scelte: droga, gang o musica

Lui invece è rimasto. Ha stretto i denti ed è cresciuto nella periferia metropolitana e degradata, quella «dove convivono lo sbirro e il ladro, il malato ed il medico della mutua, spacciatori e consumatori». Davanti a lui tre scelte: la droga, la gang o la musica. Ha lottato per non essere cancellato, per affermare la propria libertà, il proprio diritto a vivere e non a sopravvivere. Insieme con altri quattordici amici, ha creato la Dogo Gang, un collettivo di artisti. Myspace, zeppo di accessi (ben centomila), è stato il suo trampolino di lancio. Poi il passaparola, i pienoni nei locali e un cd autoprodotto, diventato di culto nell’underground tanto da vendere duemila copie senza distribuzione, hanno incuriosito l’Universal che gli ha concesso fiducia, budget e piena autonomia nel realizzare il disco. 

Adesso raccoglie dischi di platino, ben dieci con due album: Persona del 2020 e Noi, loro, gli altri, con il quale, primo rapper, ha anche vinto la Targa Tenco per il miglior disco. «È assurdo perché un anno fa circa cantavo: “Meriterei il Premio Tenco per il fottuto talento che tengo”… ma non pensavo sarebbe successo davvero. In questo Paese non c’è mai stato questo tipo di riconoscimento, per cui sono davvero molto contento. Spero che questo sia un grandissimo segnale non solo per la mia carriera, ma per tutto il genere».

Attraverso i libri ha ridato credibilità al rap

Un genere, il rap, al quale Marra ha ridato dignità e credibilità, mescolandolo con i suoi libri, con l’amato John Fante di Chiedi alla polvere. «La lettura è stata una formazione, confesso che leggevo più prima», ammette. «Per me è stata importante anche per carpire un metodo, imparare i molti modi di raccontare una storia. Uno dei limiti del rap è restare all’interno di una narrazione, che nel caso dell’hip hop è il riscatto sociale. La sfida allora è trovare sempre nuovi punti di vista per raccontare questa storia. E nel tempo approfondire. Per me il passaggio c’è stato negli ultimi due dischi. Dal racconto di ciò che vedevo ho cominciato a entrare nella psicologia dei ragazzi di strada, per esempio. Non solo. Ho anche autodistrutto un certo immaginario legato al rapper duro e macho, tutto muscoli e sicurezza di sé. Ma questo è un altro discorso ancora…».

Il “king del rap” collezione ogni sera “sold out”, compreso per il concerto che terrà lunedì 10 ottobre al PalaCatania, ma resta vicino alla sua gente, al quartiere Barona, da dove è cominciato tutto. «Il successo ti espone, ti mette a nudo, ti ingigantisce e come una lente di ingrandimento, mette anche a fuoco i tuoi difetti e le mostruosità; non è una vita facile, per niente», mette le mani avanti lui. «Non era scontato, non era previsto, perché ogni volta è impossibile capire dove arriverà l’album; puoi solo dare il massimo e sperare che poi vada bene. Il successo di Persona mi aveva messo addosso parecchia pressione psicologica perché certe cose diventano un po’ irripetibili. L’importante per me era aver fatto un bel disco e confermare che sono un artista. E invece il lancio di Noi, loro, gli altri è stato ancora più sbalorditivo del disco precedente».

Marracash durante lo spettacolo (foto di Andrea Bianchera)

Lo spettacolo “live” pieno di sorprese e canzoni

Nello spettacolo – speriamo succeda anche a Catania – Marracash si cala dall’alto cantando Body parts – I denti su una piattaforma sospesa nel vuoto da quattro cavi d’acciaio. È l’avvio a sensazione di una maratona rap che si dilata nello spazio e nel tempo fino all’epilogo, in un turbinare di coriandoli argentati, col pubblico tutto lì a scandire le barre di Infinity love.

Sul palco è affiancato da una band di cinque elementi (Jacopo Volpe alla batteria, Claudio Guarcello alle tastiere, Eugenio Cattini alla chitarra, Roberto Dragonetti al basso, Paolo Parpaglione al sassofono) ed è raggiunto da Vassily Solodkyy, tenore d’origine ucraina che esegue dal vivo le parti liriche di Pagliaccio per unire il repertorio dell’ultimo album a quello del predecessore Persona in una specie «di seguito spirituale con un concept diverso», spiega Marra. 

Con il rutilante apparato messo a punto per i palasport – un megaschermo alto più di 5 metri, proiezioni in 3D ed altre sorprese scenografiche – la scaletta si avvicina a quella testata nei concerti all’aperto dell’estate, a cominciare da Quelli che non pensano – Il cervello con i suoi riferimenti politici a Salvini e Meloni («Salve Salvini, se lo contesti, già se lo citi / Manda faccina e bacini, terrapiattisti, privi di senso, sì, come i testi nell’indie»).

«Questo è un tour molto ambizioso, che rispecchia due dischi molto ambiziosi», sottolinea il rapper. «C’è la volontà di offrire qualcosa che sia un vero show, a volte capita di vedere show in cui non c’è l’artista, in cui non c’è la musica, l’obiettivo è quello di definire un nuovo standard nell’ambito dell’urban in Italia e il concetto di show nell’hip hop, dove a volte l’offerta è molto scarsa. Ho cercato di coniugare quindi la musica all’effetto spettacolare, in modo tale che riesca anche a stupire. Questo live è sia un concerto, dove la musica è al primo posto, dove la performance è molto curata, e sia uno show, con sorprese e momenti di puro spettacolo. E questa è una figata!».

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