Storia

Le Ong censurano “L’urlo” dei migranti

La proiezione del film di Michelangelo Severgnini interrotta a Napoli dopo appena 20 minuti. «Stanno facendo terra bruciata attorno a me e al mio lavoro perché racconto un’altra verità: i profughi in Libia vogliono tornare a casa», denuncia il regista. «Impedire la visione di un’opera che offre una narrazione diversa da quella della Sinistra mi sembra una reazione scomposta, isterica», commenta il lampedusano Giacomo Sferlazzo, attore e musicista nella pellicola. Il nodo politico della Tripolitania
Giacomo Sferlazzo

«Capisco interrompere la proiezione di un film perché fa apologia del fascismo o del nazismo. Ci può stare. Ma impedire la visione di un documentario che offre una narrazione diversa da quella della Sinistra e delle Ong mi sembra una reazione scomposta, isterica», commenta Giacomo Sferlazzo, l’“ultimo comunista” di Lampedusa, attore e musicista nel docufilm L’urlo del regista Michelangelo Severgnini, oggetto di contestazione lo scorso 25 novembre durante il “Festival dei diritti umani”, dove dovrebbero regnare la tolleranza e la democrazia. 

«Questo film proiettatelo nella sede di Casapound». E ancora: «Regista dei miei coglioni». Con una salva di insulti di questo tenore, un gruppo di attivisti delle Ong ha interrotto dopo appena venti minuti la proiezione del film. Proprio in quei venti minuti c’è l’intervento dell’artista lampedusano. Dice: «Va bene, apriamo i confini, facciamo entrare tutti, ma per fare cosa? Per spostare masse di disperati dall’Africa all’Europa e far suonare i tamburi in circolo o per poi sfruttarli nelle campagne?».

Ma la vera causa scatenante della contestazione è stata quando un migrante in Libia punta l’indice contro il miraggio Europa: «Adesso molti di noi vogliono tornare a casa, ma voi europei piuttosto li volete spingere ancora una volta a rischiare la vita in mare». «Questa piccola frase, che sembra semplice e innocente, in realtà è un pugno in faccia alla narrazione fiabesca delle Ong», spiega colui che è stato oggetto della protesta, ovvero il regista Michelangelo Severgnini, nato a Crema, ma di base a Napoli. 

«Non è la prima volta che il film è stato censurato», continua amareggiato Severgnini. «Stanno facendo terra bruciata attorno al progetto e al suo autore sin dagli albori. Proprio agli inizi, quando stavamo cercando i fondi e già stavo pubblicando i messaggi vocali che ricevevo dai migranti schiavi in Libia, abbiamo avuto un incontro con un emissario della Open Society Foundations che ci ha offerto una partecipazione per contribuire alla realizzazione dell’opera. Ponendoci, però, una clausola: il finanziamento poteva essere erogato soltanto se toglievamo dalla storia il fatto che i migranti in Libia chiedono di tornare a casa. Questo il primo episodio, poi tanti festival ci hanno chiuso le porte in faccia e lo stesso produttore, suscettibile alle richieste Ong, ci impedisce la distribuzione».

Se si sono spostati in Libia non era per il dilemma “o Europa o morte”, come ci vogliono far credere le Ong, ma semplicemente perché ingannati, perché qualcuno aveva promesso qualcosa di vantaggioso che poi non si è verificato. Come un passaggio rapido in Europa. Ma poi succede che dopo quattro anni sono ancora in Libia, ridotti in schiavitù. Solo uno su diciotto sbarca effettivamente in Italia, gli altri diciassette non ci approderanno mai

Michelangelo Severgnini
Michelangelo Severgnini

A fare paura sono le testimonianze che Severgnini ha raccolto in Libia. «Da quattro anni registro e pubblico messaggi vocali, video, fotografie ricevuti attraverso i social dai migranti. Li ha pubblicati Der Spiegel, persino Saviano sul Corriere della Sera. Dal punto di vista giornalistico nessuno ha mai potuto mettere in discussione il mio materiale», spiega. «Ci sono ore e ore di messaggi vocali di ragazzi nei quali non solo ti supplicano di voler tornare a casa, ma ti spiegano il motivo. Perché se si sono spostati in Libia non era per il dilemma “o Europa o morte”, come ci vogliono far credere le Ong, ma semplicemente perché ingannati, perché qualcuno aveva promesso qualcosa di vantaggioso che poi non si è verificato. Come un passaggio rapido in Europa. Ma poi succede che dopo quattro anni sono ancora in Libia, ridotti in schiavitù. Solo uno su diciotto sbarca effettivamente in Italia, gli altri diciassette non ci approderanno mai». 

In gran parte sono ragazzi intorno ai vent’anni provenienti dalla Nigeria, dal Ghana e dal Senegal. Per loro, tornare indietro con le proprie gambe sarebbe impossibile. C’è da affrontare il deserto del Sahara. E le mafie non forniscono il servizio a ritroso. «L’unica salvezza è che qualcuno li carichi su un aereo, come ad esempio l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che ha rimpatriato 60mila migranti negli ultimi cinque anni, con voli volontari e gratuiti. Ma le stesse autorità di Tripoli non li autorizzano troppo volentieri, perché hanno bisogno di mantenere una costante forza lavoro gratuita di neri africani».

Le Ong ritengono che il film metta in discussione il loro operato e il diritto a salvare le persone in mare.

«In effetti, la mia ricerca si ferma a poche miglia dal mare. Non arrivo al momento in cui c’è l’incontro fra il barcone dei migranti e la nave Ong. Però ho raccolto testimonianze che dimostrano che le Ong funzionano come esca. Le mafie africane mostrano i siti e le pagine social delle Ong, illudendo tutti che possono andare di là. Non solo. Tutti questi migranti sono provvisti di un telefonino e di internet. Quindi, hanno imparato benissimo come seguire i social delle Ong, e s’informano giorno per giorno dove sono le navi e come si spostano. Alle Ong attribuisco la funzione della distrazione di massa, soprattutto nei confronti dell’opinione pubblica europea. Ci hanno portato a parlare dei poveri cristi che muoiono in mezzo al mare, così ci siamo dimenticati della vera storia: le cause politiche».

Il problema è la Libia.

«La Tripolitania, per la precisione, che per noi rappresenta l’intera Libia, ma in realtà è il 20% del territorio sotto il controllo dei gruppi armati. Il restante 80% è controllato dalle legittime autorità, è uno Stato sovrano con un governo e un Parlamento eletto dai cittadini. Da un po’ di anni quella nazione la stiamo raccontando veramente male. L’Europa finanzia le milizie del governo illegale di Tripoli perché saccheggino ogni anno il 40% del petrolio libico. Gli aiuti europei destinati all’emergenza migranti vengono utilizzati a scopi militari».

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