Storia

Le mille sfumature di Adriana Spuria

Esce il nuovo album dell’artista siciliana: otto canzoni lasciate affinare come un vino pregiato per armonizzare ogni componente e sprigionare tutti gli aromi, i profumi, i sapori. Una architettura melodica che si muove fra diversi stili e generi. «È il disco della rinascita e della maturità» nato dopo un periodo di depressione «perché mi sono sentita tradita dalla mia terra». La musica come salvezza per elaborare lutti e superare momenti drammatici
La copertina dell’album

La musica è nel nome: Adriana. Come Adriana Lecouvreur, l’opera lirica di Francesco Cilea amata dal papà, melomane e cantante lirico amatoriale. «Mio padre avrebbe voluto Adrienne, in francese, fu mia madre a imporsi. Adrienne mi è rimasto come secondo nome», sorride Adriana “Adrienne” Spuria. «E Concetta come terzo nome, in onore della nonna materna». Quasi a sottolineare le origini siciliane della cantautrice che il prossimo 17 marzo pubblica il suo nuovo album: Adriana Spuria

La musica nel nome e nel destino. Era il 1997, un’amica la informa di aver visto sul televideo l’annuncio di un concorso Siae per borse di studio al Cet, la scuola di Mogol. «Mando un brano intitolato Sicilia, in stile Pino Daniele, e vengo selezionata insieme ad altri 499 fra gli oltre cinquemila candidati», racconta. «All’esame d’ingresso c’erano Mogol, suo figlio Cheope e Gioni Barbera. Dovevano scegliere 12 compositori e altrettanti autori. C’erano tanti ragazzi che sarebbero diventati famosi fra i partecipanti. Mi ricordo Davide De Marinis, Valeria Rossi, quella di Tre parole, Diana Tejera. Io superai la prova e sono entrata come compositore».

Adriana comincia a seguire i corsi «tenuti da Gianni Bella, Oscar Prudente, Gatto Pancieri, Raf», ma nel frattempo continua l’esperienza cominciata tre anni prima con Radio Monte Carlo. «In un corso di buddismo, filosofia che pratico da quasi vent’anni, avevo incontrato Alessandra Valsecchi, moglie di Alberto Hazan, l’imprenditore artefice del successo di Radio Monte Carlo. Alessandra aveva ascoltato un mio brano, Parole finite, e le era piaciuto. Così mi chiese di scrivere dieci brani per il suo album. Che non sarebbe mai uscito. Nacque, comunque, una collaborazione per le compilation di Monte Carlo Nights: io facevo la “ghost writer”, scrivevo le melodie. Ben pagata, ma anonima».

Se quelle composizioni andavano bene perché non metterci sopra la firma e fare da soli? È quello che pensò Adriana seguendo l’esempio del suo idolo, la pasionaria Ani Di Franco. Così, nel 2005, fonda una propria etichetta per non soggiacere ai dettami delle major. Imprenditrice, oltre che cantautrice. «Prima, però, tentai la carta Carmen Consoli», confessa. «Portavo i provini a Salvo Noto e lui mi rassicurava: “Vedrai che prima o poi Carmen ti produce”». Il tempo passava e le nuove canzoni si accumulavano. L’artista siracusana decide allora di autoprodursi. Nel 2011 esce il suo album d’esordio Il mio modo di dirti le cose. Dieci canzoni, metà delle quali prodotte da Tony Carbone, ex bassista dei Denovo e “mago dei suoni”, le altre cinque da un ancora sconosciuto Lorenzo Urciullo che faceva le prove di Colapesce. «Il bello è che quando a casa di Nica Midulla, per il Tributo a Francesco Virlinzi, incontrai Carmen, lei mi disse: “Sai che ti volevo produrre”…».

Il mio modo di dirti le cose va molto bene. Due tracce, in particolare: Una donna e Non credo. La seconda raggiunge il terzo posto nella hit mondiale di YouTube sulla scia di una tournée di 24 date nel circuito dei locali Lgbt. «È stato forse uno dei primi video a parlare esplicitamente dei sentimenti d’amore fra due donne».

Per la Ani Di Franco siciliana sembra aprirsi la strada del successo finché non si frappone il “male oscuro”. «Al termine del tour, nel 2012, cado in un periodo di depressione», confessa. «Rimasi delusa, mortificata, dalla reazione del territorio. Avevo suonato in tutto il Nord Italia arrivando fin sotto il Vesuvio, ma da Napoli in giù sono stata ignorata. Mi sono sentita tradita dalla mia città, Siracusa, e da Catania, dove ho vissuto per un certo periodo. Questo mancato sostegno mi ha buttato giù».

È ancora il periodo dell’esplosione delle cover band nei locali. La mancanza di coraggio da parte dei proprietari e l’assenza di curiosità di un pubblico omologato dal karaoke dei talent, riducono gli spazi a chi propone qualcosa di nuovo, di diverso. «Anch’io regredisco e mi metto a interpretare cover, standard, più proiettata però verso il jazz». Finché una sera capisce di sentirsi fuori posto assistendo a una lite fra colleghi che si disputavano una serata per 50 euro. «Non era quella la mia dimensione. Così mi son detta: “Riproviamoci”. E mi sono rimessa a scrivere».

Nell’estate del 2018 nasce Joy. E mai titolo fu più azzeccato. Il brano rilancia Adriana Spuria come cantautrice, fino a riportarla davanti alle telecamere di Rai1. Stranamente, però, la canzone non viene inserita nell’album con cui l’artista aretusea si rituffa nell’arena. «Perché rappresenta un ponte con il passato, per ricominciare», spiega. La vera rinascita arriva con L’attimo sospeso, che è anche il brano che apre il nuovo lavoro. Una tromba jazz e il piano sembrano ricollegarsi ai percorsi da piano bar nei locali notturni, ma poi la voce ci conduce attraverso quelle sofisticate ed eleganti atmosfere che gli autori affidavano un tempo a Mina. 

«È la canzone che forse amo di più in questo disco, è quella che mi rappresenta meglio», commenta. «Racconta la realtà osservata e vissuta nel quotidiano da una donna che, in un flusso di coscienza di quattro minuti, sospende l’attimo rendendolo infinito».

Adriana Spuria è l’album «della rinascita e della maturità». La musica diventa la via di salvezza per la cantautrice in una fase drammatica della sua vita che coincide con il buio del lockdown, la scomparsa della mamma Michela, la malattia della sorella. Scrivere l’aiuta a elaborare il lutto con il rock di Fragile, a ritrovare la serenità nella straordinaria ballata in inglese December, che sbuffa folk dallo splendido violino di Matteo Blundo. 

Adriana Spuria è un album meditato a lungo: otto canzoni lasciate affinare come un vino pregiato per armonizzare ogni componente e sprigionare tutti gli aromi, i profumi, i sapori. Ogni traccia è potenzialmente un singolo. Raffinati e complessi gli arrangiamenti. Poetici e curati i testi. «È stata importante la collaborazione di Gae Capitano nei testi e negli arrangiamenti», sottolinea l’autrice. «Così come quelle di Lorenzo Coriglione e di Luca Viviani».

Un disco caldo, corposo, dalle mille sfumature, che fluisce senza ostacoli e che ti assorbe nell’ascolto, ma non per questo semplice. L’architettura melodica si muove fra diversi stili: il jazz ed il blues s’insinuano in gran parte dei pezzi, accompagnando l’elettronica, il folk, il trip hop, la canzone d’autore. L’amore che era stato il tema del primo album viene sviluppato nei risvolti sadomaso di Restless, il secondo pezzo in inglese, e nell’erotismo dei Fiori del male. «La prima è nata nel periodo del successo della trilogia di 50 sfumature, ed è una sorta di indagine sul perché la gente va alla ricerca di queste emozioni forti. È una canzone sull’inquietudine come i Fiori del male che parla della seduzione fra due donne».

Il Vero amore, invece, è una dichiarazione romantica, sturm und drang. Per poi arrendersi davanti alla constatazione che “n’cantaturi è l’amuri”, come canta in Vuci amica, brano acustico chitarra e voce in dialetto. «Volevo inserire una canzone in siciliano, usare il dialetto con sonorità che sono folk ma anche un po’ jazzistiche, sullo stile di Ivan Segreto. Mi piace il modo di prestare il dialetto al jazz e al blues. Il blues è sempre dentro di me. Finisce sempre a insinuarsi da qualche parte».

L’eleganza e la classe con cui è stato realizzato l’album, sin dalla copertina che strizza l’occhio ai grafismi optical in bianco e nero fra Duchamp e Balla, Balenciaga e Lanvin, non ingannino. Adriana Spuria è un disco fai-da-te, casalingo. Talmente genuino e semplice nella fattura che alcune registrazioni sono state effettuate nella cucina di casa dell’artista «con un microfono SM58 e una scheda audio da 50 euro», sorride. «Oggi, fortunatamente, grazie ai computer puoi avere tutto in casa. È stata una produzione a bassissimo costo, portata a termine con un decimo di quello che avevo speso per Il mio modo di dirti le cose. Così non vado in perdita e posso lavorare in piena libertà».

Rispunta la Ani Di Franco siciliana, l’artista sempre rimasta fuori. Dalle logiche del mercato, dal music business. Libera di dire ciò che vuole dire con le modalità ed i tempi da lei decisi. L’artista che disfa le etichette di genere, dilania i tabù sessuali ancora in vita nella società. Lotta per il superamento del sessismo e per il riconoscimento dei diritti. Di tutti. «Lotterò sempre contro l’ageismo e la misoginia di questa società», sfida. «Non possiamo lasciarci condizionare. Dobbiamo imparare a cambiare questa realtà. Dobbiamo lottare per far emergere qualcosa di diverso. Come fare? Partendo da me. E allora io mi metto in copertina, mi metto nei video. Ho la fortuna di dimostrare meno della mia età, ma non interessa. Proprio in questo momento in cui la società è estremamente pedofila, proiettata verso la giovinezza, l’esaltazione della fanciullezza, c’è bisogno di tornare alla saggezza della maturità, come nell’Antica Grecia. I miti potrebbero darci una mano in tal senso. L’età non può essere discriminante, lo diventa in una società che discrimina per età, sesso e razza».

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