Storia

Johnny Cash, una storia americana

Vent’anni fa moriva uno dei padri del rock, unico artista che ha suonato con Elvis Presley, Beatles e U2. La storia di The Man in Black, come veniva chiamato, è legata in modo indissolubile a quella musicale e culturale degli Stati Uniti. La resurrezione negli anni Novanta e la malattia che gli negò di raccogliere i frutti della sua carriera dopo una vita travagliata

Porto questa corona di spine / Sul mio trono di bugiardo / Pieno di pensieri spezzati / Non posso rimediare / Sotto le macchie del tempo

Johnny Cash: Kingsland, 26 febbraio 1932 – Nashville, 12 settembre 2003
da “Hurt”

È una delle strofe di Hurt, la canzone che viene spesso definita il “testamento di Johnny Cash”. Non è sua. Eppure, lo è più di tante altre scritte da lui. Per una serie di tragiche coincidenze e affinità. Se quell’inchiostro così amaro e personale della quale è intrisa, uscito dalla penna di Trent Reznor dei Nine Inch Nails, sembra buttato giù da Johnny Cash è per l’associazione tra Hurt e la scomparsa dell’“Uomo in nero”, The Man In Black, il più celebre dei suoi soprannomi di Johnny Cash, preso in prestito dal titolo di un suo album del 1971 e utilizzato poi per l’autobiografia pubblicata nel 1975. 

Tutto è avvenuto nel biennio 2002-2003. L’ultimo album, la deriva della malattia, la morte dell’adorata moglie June… E nei nostri occhi la sintesi in un video che è una lama emotiva: il video di un uomo dignitosissimo che compie il rito finale tra ricordi e rimproveri amari quanto inutili. Un vecchio troppo consapevole che guarda in camera fra feticci ormai svuotati di significato. Alla fine, reclina il capo e chiude il pianoforte. Nel silenzio. È una sorta di My Way al contrario, un canto di dolore e di sconfitta. Johnny Cash morirà di lì a poco: il 12 settembre 2003.

The Man in Black era nato nell’Arkansas in una famiglia di contadini con sangue indiano. «Raccontava storie di uomini in fuga dalla legge, dalla miseria in cui sono nati, dalla galera, dalla pazzia, dalla gente che li tormenta», ha scritto di lui Quentin Tarantino, uno dei tanti artisti delle nuove generazioni che hanno amato Johnny Cash. 

La storia personale e musicale di Cash è legata in modo indissolubile a quella musicale e culturale degli Stati Uniti nella seconda metà del Novecento, dai suoi inizi mitici nell’etichetta Sun di Memphis al suo sorprendente “come back” degli anni Novanta, per cortesia di Rick Rubin e la sua American Recordings. È uno dei pochi artisti ha suonato con Elvis Presley, i Beatles e gli U2. Ha definito il country, fondato il rock’n’roll, visto nascere il folk-rock ed è stato omaggiato da quattro generazioni di musicisti. 

La voce baritono profonda e la scarna chitarra di Johnny Cash hanno attraversato un’epoca e segnato la storia. Era l’unico con cui Elvis si sedeva a cantare vecchi gospel, l’unico a cui Bob Dylan regalò una canzone che lui stesso non cantò mai (Wanted Man), l’unico capace di proporre versioni di One degli U2 o Row Boat di Beck migliori delle originali, scritte e cantate da musicisti venti o trent’anni più giovani di lui.

Dai suoi leggendari concerti nelle carceri di San Quentin e Folsom City (perfino Ray Davies dei Kinks gli rubò la sua frase di presentazione: «Hi, my name is Johnny Cash») alle sue collaborazioni con gli outlaws della country music come Willy Nelson e Waylong Jenning (con cui fondò gli Highwaymen), passando per canzoni di Bruce Springsteen e Depeche Mode, la musica di Johnny Cash ha coperto più spazio e più tempo che quella di qualsiasi altro artista del XX secolo.

Il successo, clamoroso e improvviso, trasformò la sua vita in una frenetica corsa attraverso l’America al ritmo di oltre 250 concerti l’anno. Cash cominciò così a ripercorrere la drammatica vicenda di Hank Williams, l’altro grande rivoluzionario del country, con il quale forma un’ideale coppia di padri fondatori del rock. Per reggere quel ritmo frenetico, iniziò a fare un uso smodato di anfetamine e sonniferi, devastando il proprio sistema nervoso e lo stomaco. Arrestato nel 1965 per detenzione di stupefacenti, rischiò la vita due anni dopo, quando alla fine di uno spettacolo collassò per overdose. Johnny Cash at Folsom Prison, uno dei suoi album più famosi, è la testimonianza del suo soggiorno nel carcere di Folsom (memorabile è anche il concerto tenuto nella prigione di San Quintino).

Negli anni Ottanta attraversa un periodo di crisi, in coincidenza con i primi segnali di decadenza fisica. Resta a galla con Johnny 99, in cui interpreta le canzoni di Bruce Springsteen. Ma è grazie a Rick Rubin, produttore dei Red Hot Chili Peppers, che il vecchio Man in black diventa il protagonista di una clamorosa resurrezione artistica segnata dalla serie American recordings, alla quale, nel terzo capitolo, partecipano artisti come Fiona Apple, Don Henley, Nick Cave, dopo che gli U2 lo avevano ospitato in Zooropa, ventiquattro anni dopo il duetto con Bob Dylan in Nashville Skyline.   

Bob Dylan e Johnny Cash

American IV: The man comes around, il suo ultimo cd arrivò nei negozi quasi in contemporanea con l’album tributo realizzato da artisti come Bruce Springsteen, Sheryl Crow, Steve Earle ed Emmylou Harris. Dopo una vita trascorsa sul filo del rasoio, tormentato dalle malattie, provato dal dolore per la morte della moglie, secondo un destino che per certi versi lo ha accomunato a Roy Orbison, Johnny Cash ha avuto soltanto in tarda età tutto quello che i codici e le convenzioni gli avevano negato prima. All’edizione 2003 dell’Mtv awards era stato premiato per il video di Hurt, ma i problemi di salute gli vietarono di raccogliere l’ultimo applauso.

Se potessi ricominciare / a un milione di miglia da qui / mi controllerei / troverei un modo

da “Hurt”

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