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“John Barleycorn Must Die” – Traffic

Ogni domenica, segnalisonori dà uno sguardo approfondito a un album significativo del passato. Oggi rivisitiamo una delle massime espressioni dell’arte rock. Quello che doveva essere il debutto solista di Steve Winwood divenne il capolavoro di una band che fondeva folk, rock, soul e jazz
Steve Winwood

Questa è una storia che comincia da due fallimenti. Il primo è lo scioglimento dei Traffic, la band formata da quattro primedonne un po’ litigiose – Steve Winwood, Chris Wood, Dave Mason e Jim Capaldi -, che alla fine degli anni Sessanta tracciò un solco profondo nella breve stagione del flower-power, aprendo le finestre sul sogno con una musica che fondeva rock, soul e folk. Una breve stagione che durò appena due anni, aperta dall’album Mr. Fantasy (1967) e chiusa dal disco con l’indicativo titolo Last Exit (1969). Le forti personalità del gruppo e, in particolare, l’irrequieto Mason portarono alla separazione. 

Ognuno per la sua strada. Che condusse il cantante e pluristrumentista Winwood a creare un altro supergruppo con Eric Clapton, Ginger Baker e Rich Grech: i Blindfaith. Un disco, un mastodontico tour, che rimasero unici. Il più grande gruppo rock della storia non ebbe neppure il tempo di diventarlo che si sciolse. Baker andò in esilio in Africa. Clapton si accasò con Delaney & Bonnie. Grech si mise in aspettativa. 

Steve Winwood, invece, decise di proporsi da solista con Guy Stevens che si occupava della produzione. L’album avrebbe dovuto intitolarsi Mad Shadows e doveva essere una grandiosa celebrazione folk e rhythm and blues. Presto, però, il ragazzo di Birmingham si rese conto che il suo progetto era superiore alle sue forze e cominciò a richiamare i vecchi compagni d’avventura con i Traffic. Riportò Jim Capaldi e Chris Wood e, insieme, cercarono di sincronizzare quel lavoro che avevano lasciato incompiuto a causa della presenza disturbatrice di Dave Mason. Alcuni hanno sostenuto che l’interazione tra la chitarra di Mason e l’organo di Winwood fosse il problema principale, ma la prima cosa che si avverte ascoltando i nuovi Traffic sono tre musicisti che suonano rilassati e reattivi ai segnali reciproci, senza mai diventare sciatti. Il capolavoro era pronto per nascere.

Steve Winwood recuperò un brano tradizionale che narrava la storia dell’alcol personificato, una vecchia suggestione che aveva ispirato musicisti e scrittori, Pentangle e Jack London: John Barleycorn Must Die. Una delle massime espressioni dell’arte rock vedeva la luce.

C’è, indubbiamente, un po’ di calcolo nel titolo, che ben si adattava allo stato d’animo bucolico dell’epoca. Il 1970, l’anno di uscita, cade nel pieno della grande fase della psichedelia rurale e del folk-rock britannico: l’anno di fondazione degli Steeleye Span, un periodo in cui artisti del calibro di Fairport Convention, Led Zeppelin e molti altri erano tutti intenti a intrecciare la loro musica con il cuore folcloristico della Gran Bretagna. 

In verità, John Barleycorn è molto più sofisticato, puntando più al jazz e all’improvvisazione che alla semplicità folk. L’arrangiamento della canzone è bello e minimale, l’accordatura leggermente inasprita della chitarra acustica compensata dagli splendidi, volubili trilli di flauto di Chris Wood.

La canzone strumentale di apertura Glad, ad esempio, è lontana dal folk-rock. Entrando con un controtempo in stile Motown scandito sul bordo, il pianoforte di Winwood è speziato, un sapore di soul-jazz che si alterna a colpi di corno e al “sassofono elettrico” di Wood, raddoppiato attraverso wah-wah e pedali di distorsione, creando un dialogo psichedelico con gli strumenti acustici.

La sdolcinata Freedom Rider è l’anello debole dell’album, mentre Empty Pages – “Una canzone sulla noia” come viene introdotta dal vivo – scorre amabilmente su un lavoro di batteria molto serrato di Capaldi e un basso rimbombante, gestito con competenza da Steve “Mr. Fantasy” Winwood. 

A conferma che l’album è stato ideato come progetto solista, in Stranger to Himself, prodotto da Guy Stevens, Winwood si occupa della voce solista e di tutti gli strumenti, dall’ampio pattern di batteria alle interiezioni sulla chitarra elettrica e ad un’acustica simile al sitar; l’unico altro contributo viene da Capaldi, che aggiunge l’armonia vocale al coro. L’aspetto one-man-show è davvero evidente. Every Mother’s Son presenta alcune delle sue migliori esecuzioni d’organo, avvolgendo l’intera canzone in una confortevole coperta.

Anche se successivamente i Traffic non abbracciarono i miti popolari, lo spirito pagano di John Barleycorn operò la sua antica magia sul gruppo, resuscitando questi “tre uomini venuti dall’ovest”, e concedendo loro altri quattro giri del sole. 

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