Interviste

Interviste storiche/3: Fabrizio De André

Dall’archivio personale ripesco alcune chiacchierate avute con protagonisti della storia della musica che non ci sono più. Colloqui non legati ad avvenimenti particolari, ma che sono quasi una sorta di lezione di vita. Questa intervista, risalente al 1992, si dimostra ancora di una attualità sorprendente

Nel 1992 Fabrizio De André intraprese una lunga tournée per la prima volta nei teatri con uno spettacolo diviso in due parti: la prima dedicata alle canzoni che hanno per protagonista le donne, la seconda alle canzoni maschili. Erano sei le date in programma: due a Catania, tre a Palermo e una a Siracusa. Quattro giorni dopo il debutto nazionale ad Alessandria del tour, il promoter locale Carmelo Costa mi telefonò per chiedermi se avessi voluto intervistare De André. Chi non l’avrebbe desiderato. Tanto più che veniva considerato un uomo solitario, un po’ scorbutico, per nulla disponibile a chiacchierate con giornalisti sconosciuti, quale ero io. Dovetti ricredermi. Non solo si rivelò gentilissimo, ma si lasciò tempestare di domande senza rispondere a monosillabi, sempre piacevolmente coinvolto nella chiacchierata che toccò diversi argomenti, dal rapporto uomo-donna alla musica, sino alla politica. Erano gli anni di Tangentopoli e delle inchieste di “Mani pulite”, dell’ascesa della Lega di Umberto Bossi e della crisi dei partiti della Prima repubblica. Rileggendola a distanza di oltre trent’anni, risulta ancora attualissima. Eccola:

Questa è la sua prima tournée nei teatri?

«Sì, non avevo mai fatto teatri. II teatro è un luogo deputato alla commedia e alla tragedia, non è certo lo spazio per un concerto di musica popolare. Ho voluto provarci perché mi sono reso conto che in un teatro hai molte più responsabilità, per varie ragioni. Io credo che il teatro lo abbia inventato un tedesco, perché si crea una dicotomia fra palco e platea che non c’è in un anfiteatro greco, dove le cariche emozionali possono essere scaricate fra settori di pubblico. Invece, nel teatro, tutta l’attenzione è concentrata sul palcoscenico. Questo vuol dire che sei molto più responsabilizzato che in un palasport ad esempio. D’altra parte il teatro è l’unica struttura in Italia che ti garantisca un buon ascolto e che si possa trovare in tutte le città».

Fabrizio De André (1940-1999) e Dori Ghezzi

Lo spettacolo che presenta è una sorta di carrellata sull’umanità, diviso in canzoni femminili e maschili. Perché questa netta separazione?

«C’è anche un passaggio sui “figli della Luna”, come Platone definiva gli omosessuali, con la canzone Andrea… Perché questa divisione?… Perché penso che uomini e donne siano fondamentalmente diversi. Forse è una mia dichiarazione di sconfitta. Io non sono voluto entrare mai nel dettaglio per quanto riguarda il tentativo di conoscenza del mondo femminile. Mi sono riservato la possibilità di mitizzare le donne, e cosi sono riuscito ad andarci più d’accordo. Se avessi approfondito di più, avrei litigato di più e non sarei reduce da un matrimonio finito e non mi sarei risposato. Non sono mai diventato veramente amico di una donna».

Eppure, in questo tour, ha al tuo fianco come corista tua moglie Dori Ghezzi.

«Ma è soltanto un rapporto professionale: lei è una grande cantante. E poi viviamo bene assieme. Ma, ad esempio, continuiamo a vivere in camere separate, anche negli alberghi. Amicizia, ovvero scrutare tutte le pieghe dell’anima, no. Fiducia, stima, trasporto passionale sì. L’amicizia con gli uomini, con loro mi apro più di quanto faccio con mia moglie».

Nei concerti presenta brani di Leonard Cohen e George Brassens, autori da lei amati. Perché non Bob Dylan?

«Leonard Cohen mi ha prestato un po’ di donne che io non avevo», ride. «Dylan no, non è mai stato una fonte semmai un breve stimolo alla sete, un’acqua affiorante con cui mi sono appagato traducendo alcune sue canzoni. Non sono un dylaniano. La cultura esistenzialista francese mi è più vicina e poi Genova, i poeti liguri, le letture adolescenziali».

Come giudica il suo mestiere?

«Non avrei voluto giudicarlo un mestiere. Perché, secondo me, un mestiere, come tutte le specializzazioni, finisce per tarpare un po’ le ali a quella che è l’espansione. Ci sono tante cose da vedere, da ascoltare, da conoscere. Certo, dovendo affrontare ottanta date, mi rendo conto che in questo periodo mi dovrò limitare a fare il cantautore».

Ci sono molti suoi colleghi, come Francesco De Gregori, che rinnegano questa definizione. In fin dei conti, cantautore è anche Toto Cutugno.

«Non è certamente una parola di gusto, ma bisogna vedere con quale sostituirla Artista? Potrebbe andare bene, però non di arte varia».

La canzone cos’è per lei?

«Non è un’opera d’arte È una piccola novella musicata, almeno per quanto mi riguarda: io sono un raccontatore».

Nel Mediterraneo abbiamo tremila fonti da cui attingere: dal Nord Africa, dall’Arabia, e poi il fado portoghese, la musica spagnola, le nostre tradizioni popolari. Abbiamo fonti inesauribili, gli americani no

Fabrizio De André

E se poi queste canzoni vanno a finire sui libri di letteratura?

«Beh, da una parte è una iniezione di orgoglio. Dall’altra, quando penso quanto ho penato io a studiare i poeti che trovavo sui libri di letteratura, mi dà fastidio, perché penso che qualche ragazzo mi maledirà. Forse qualche piccola sensazione poetica la diamo, forse esiste un po’ di poesia in alcune canzoni, anche se la poesia è una cosa diversa dalla canzone…».

Lei difende a spada tratta la canzone italiana.

«Noi abbiamo radici e contatti culturali con un mondo molto più vasto di quello che hanno gli americani. Loro avevano come radici il blues — una musica ibrida, nata in Africa ma che di africano aveva già poco —e la musica etnica irlandese. Ma le hanno sfruttate talmente tanto che adesso sono arrivati alla frutta. Tant’è vero che Paul Simon ha dovuto cercare ispirazione in Sudafrica. Credo che le loro fonti si siano esaurite. Noi, invece, nel Mediterraneo abbiamo tremila fonti da cui attingere: dal Nord Africa, dall’Arabia, e poi il fado portoghese, la musica spagnola, le nostre tradizioni popolari. Abbiamo fonti inesauribili, gli americani no. E questo si comincia a sentire».

Recentemente lei ha invitato a non «demonizzare la Lega». Una dichiarazione che ha suscitato un po’ di sorpresa, conoscendo il suo spirito libertario e un po’ anarchico.

«Dopo che vedo sfilare migliaia di persone sotto Palazzo Venezia alzando il braccio e gridando “duce duce”, non posso dire che la Lega è di destra: c’è qualcosa più a destra di loro. Ho visto nel programma di Gad Lerner un gruppo di skinheads, non mi è sembrato che sulle teste rapate avessero il marchio di Alberto da Giussano. Quindi, io non la demonizzerei. Anche perché demonizzando il fenomeno leghista, che poi è un contenitore di protesta, si demonizzerebbero diversi milioni di italiani che hanno mandato in Parlamento cinquanta persone. Con questo non voglio assolutamente dire che io sono leghista. La mia esperienza regionalistica l’ho avuta con il Partito sardo d’azione, nato da una scissione del Pci sardo. Certo, non può essere assimilato alla Lega, ma anche se volessimo, era una esperienza che nasceva da sinistra. I movimenti regionalisti non devono essere confusi con quelli nazionalisti. Qui non si parla né di Slovenia né di Croazia. Le regioni italiane sono state tenute insieme con la colla dal 1840 in poi: ci sono differenze enormi, forse ci tiene uniti una lingua. Non credo che l’intendimento della Lega, nella quale ci sono anche ex comunisti, sia quello della secessione. Così com’è per la Sardegna: vuole semplicemente un maggiore decentramento di poteri. Ed essendo io un libertario, non posso non auspicarlo. Io comunque resto un libertario».

Nella canzone La domenica delle Salme annunciava il cadavere dell’Utopia.

«Volevamo esprimere il nostro disappunto nei confronti della democrazia che stava diventando sempre meno democrazia. Democrazia reale non lo è mai stata, ma almeno si poteva sperare che resistesse come democrazia formale e invece si sta scoprendo che è un’oligarchia. Lo sapevamo tutti, però nessuno si peritava di dirlo. È una canzone disperata di persone che credevano di poter vivere almeno in una democrazia e si sono accorte che questa democrazia non esisteva più. La Domenica delle Salme è un atto di accusa anche nei nostri confronti. C’è una tirata contro i cantautori che avevano una voce potente per il vaffanculo, e invece non l’hanno fatto a tempo debito. Io credo che in qualche maniera la canzone possa influire sulla coscienza sociale, almeno a livello epidermico. Noto che ci sono tante persone che vengono nel camerino alla fine di ogni spettacolo e che mi dicono: “Siamo cresciuti con le tue canzoni e abbiamo fatto crescere i nostri figli con le tue canzoni”. E non so fino a che punto sia una cosa giusta. Credo che in qualche misura le canzoni possano orientare le persone a pensare in un determinato modo e a comportarsi di conseguenza».

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