Interviste

Interviste storiche/2: Chet Baker

Dall’archivio personale ripesco alcune chiacchierate avute con protagonisti della storia della musica che non ci sono più. Colloqui non legati ad avvenimenti particolari, ma che sono quasi una sorta di lezione di vita. Questa volta siamo a Messina, nel 1985, quando per la prima volta incontrai il Baudelaire della tromba
Chesney Henry “Chet” Baker, Jr. (Yale, 23 dicembre 1929 – Amsterdam, 13 maggio 1988) 

Aspetto sofferto, il viso segnato da profonde rughe, capo chino, stava seduto su una seggiola quasi schiacciato dal peso dei suoi anni bui. È questo il Chesney “Chet” Baker che incontrai nel 1985 a Messina negli spogliatoi dell’Arena della Libertà. Il trombettista americano, a quei tempi cinquantacinquenne, era ospite del Jazz Meeting, tradizionale appuntamento dell’estate sullo Stretto curato dal Brass Group locale che da diversi anni non c’è più. Insieme a quella di Miles Davis, la tromba di Baker ha scritto alcune delle pagine più poetiche e anche più drammatiche del jazz, influenzando anche la musica pop.

«Sì, penso di aver influenzato il corso di certa musica pop», mi disse. «È comunque difficile saperlo. Ad esempio, quando sono andato a Rio de Janeiro ho scoperto o, meglio, mi hanno detto che ho avuto una grande influenza sulla nascita e sullo sviluppo della bossa nova negli anni Sessanta».

La mia intervista a Chet Baker (al centro). A sinistra, Rosario Strano del Brass di Acireale, e, a destra, il sottoscritto

Mentre rispondeva alle domande, Chet Baker teneva stretta a sé la valigetta nella quale custodiva la sua tromba. Non se ne distaccava mai da quando, mentre sembrava sulla via del recupero, gli fu rubato il suo strumento dopo un concerto a Napoli. Episodio che lo riportò al vizio. La ricaduta ebbe come conseguenza la separazione dalla moglie e l’inizio di una parabola discendente che avrebbe ridotto l’artista a una larva umana, incapace di suonare. 

«L’uomo venuto dalla morte», fu il titolo con il quale la rivista musicale inglese Melody Maker avrebbe salutato nel luglio del 1973 la riapparizione sulle scene musicali del redivivo Chet Baker. Aveva perso i denti, le mandibole gli erano state fratturate dagli spacciatori e una vena malinconica in più serpeggiava nelle sue costruzioni liriche.

«La mia esperienza con la droga? Mah! È di molti anni fa. Nel 1960 iniziai a prendere il metadone. Nel ’66 ho finito anche quello. Quando mi capita, quando sento di farlo, lo faccio ancora. Sono troppo vecchio… Poi oggi tutti si drogano, allora ero solo io e pochi altri».

È il Baudelaire della tromba che parla, il poeta per cui la droga sembrava rappresentare il mezzo più adatto per esaudire quel gusto dell’infinito che urge nei cuori? Non caso lei è definito, alla stregua dei poeti francesi dell’Ottocento, il “jazzista maledetto”.

«La droga è stata importante. Ed ha avuto molta influenza su di me, come artista e come uomo… Se non lo avessi fatto, forse non suonerei come faccio oggi. Tutti i musicisti a quel tempo usavano droghe. Tutti quelli che vivevano e lavoravano con me: da Gerry Mulligan a Charlie Parker. L’uso di droghe può essere importante per un musicista. Per me, almeno, lo è stato. Io l’ho fatto e basta».

Chet Baker l’avrei incontrato qualche anno dopo, il primo dicembre 1987, in occasione del concerto che tenne al Nuovo Teatro di Catania per il Brass group etneo. Il passato sembrava definitivamente accantonato. Mi apparve più sereno e anche più allegro rispetto a due anni prima. Nel suo volto balenò un sorriso, si leggevano segnali di ottimismo: mi annunciò di aver appena terminato di realizzare tre video con Elvis Costello, stava interpretando un film di Pierre Mertens ed avrebbe dovuto scrivere la colonna sonora del lavoro cinematografico di Bruce Weber.

Cinque mesi dopo moriva in circostanze misteriose cadendo da una finestra del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam: suicidio o la perdita dell’equilibrio probabilmente sotto l’effetto di droghe, secondo il rapporto degli investigatori. Ma chi lo conosceva non ha mai scartato la pista dell’omicidio.

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