Storia

Il mondo meraviglioso dell’Artchipel Orchestra

Per la terza volta la realtà musicale milanese ha festeggiato la vittoria nel Top Jazz, il referendum indetto dalla rivista Musica Jazz, come miglior formazione italiana dell’anno. «Le orchestre sono un volano importante, rappresentano un momento di condivisione fra musicisti, di socialità, di scambio, concetti alla base del jazz. Dovrebbero essere sostenute». In repertorio musiche della scuola di Canterbury

L’orchestra come un arcipelago artistico, come tante isole, entità indipendenti e diverse, ma in comunicazione tra loro. È nata con questa idea, con l’obiettivo di armonizzare le differenze, l’Artchipel Orchestra, una realtà musicale pluripremiata, che quest’anno per la terza volta ha festeggiato la vittoria nel Top Jazz, il referendum indetto dalla rivista “Musica Jazz”, come miglior formazione italiana dell’anno, classificandosi inoltre con l’album Musiche di Jonathan Coe al secondo posto nella categoria “Disco dell’anno”, alle spalle di The Song Is You di Enrico Rava e Fred Hersch.

«È un’idea che mi fu suggerita dal luogo di debutto, il Teatro Fontana, che si trova nel quartiere Isola di Milano», racconta il maestro Ferdinando Faraò, fondatore e direttore dell’Artchipel Orchestra. «Era il 2010 e l’orchestra nacque in seno all’AHUM Milano Jazz Festival diretto da Antonio Ribatti, che si svolge ancora oggi. Raccoglieva musicisti che non si erano mai incontrati prima di allora. Da qui l’idea dell’arcipelago».

L’Artchipel Orchestra (foto Roberto Priolo)

Un arcipelago meraviglioso, perché «l’orchestra è un mondo meraviglioso», sostiene Faraò. «Un mondo da salvaguardare e da sostenere. Prenderei in prestito un celebre slogan, invitando i direttori artistici e i festival ad “adottare un’orchestra”. Perché è un volano importante, è un momento di condivisione fra musicisti, di socialità, di scambio, concetti alla base del jazz. Pensiamo ai tanti giovani che escono dai Conservatori, l’orchestra può rappresentare il luogo ideale per crescere».

«In Italia siamo sbilanciati sul prodotto, pensiamo sia il fine», prosegue il musicista milanese. «Non è il risultato finale che conta, ma il processo che ci sta a monte. Questo innesca dinamiche virtuose, soprattutto per i giovani. In Italia ci sono tante orchestre, solo a Milano sono cinque o sei, tutte di grande valore. È un mondo meraviglioso. Forse è il momento di creare un coordinamento nazionale, altrimenti non esisti, e cercare di ottenere anche noi quelle attenzioni che le istituzioni stanno cominciando a rivolgere al mondo del jazz».

In Italia generalmente si guarda oltre Oceano, noi abbiamo cercato altrove, nella scuola di Canterbury. Il nostro non è, comunque, un semplice lavoro di diffusione, cerchiamo di far conoscere questi musicisti rivisitandoli

Ferdinando Faraò (foto Walter Miglio)
Ferdinando Faraò

Le difficoltà, tuttavia, non hanno scoraggiato l’Artchipel Orchestra, che da tredici anni rimane sulla cresta dell’onda, raccogliendo allori e pubblicando dischi. Una formazione autonoma e indipendente, che può contare su una trentina di musicisti, milanesi tra i trenta e i sessant’anni, pronti a mettere di lato i propri progetti per fare squadra e sostenere l’orchestra. «Ovviamente dobbiamo sempre modulare l’organico», spiega Faraò. «Ma stabilmente siamo 18/20 sul palco». In diciotto saranno domenica 14 maggio al Blue Note di Milano, dove festeggeranno il premio di Musica Jazz suonando arrangiamenti originali di composizioni di autori britannici ai quali ha dedicato una particolare attenzione in questi anni di attività, da Robert Wyatt a Lindsay Cooper, da Phil Miller a Jonathan Coe.

Già perché un’altra caratteristica che rende l’Artchipel Orchestra fra le realtà più originali del panorama musicale nazionale è l’inclinazione british che la porta a scandagliare la brumosa scena di Canterbury, ovvero i Soft Machine di Robert Wyatt, Henry Cow, Hugh Hopper, Kevin Ayers e Mike Westbrook. «A eccezione di quest’ultimo, in effetti, gli autori nel mirino dell’orchestra non sono nell’alveo della tradizione jazzistica», ammette Faraò. «La scena di Canterbury fa parte del mio vissuto, nella mia adolescenza divoravo i dischi dei Soft Machine. Rispecchia quindi una esperienza personale, anche se musicisti come Robert Wyatt o Lindsay Cooper degli Henry Cow vanno oltre i generi musicali, hanno creato un loro personale linguaggio. Abbiamo fatto una scelta diversa: in Italia generalmente si guarda oltre Oceano, noi abbiamo cercato altrove. Il nostro non è, comunque, un semplice lavoro di diffusione, cerchiamo di far conoscere questi musicisti rivisitandoli».

Lungo questa strada, l’Artchipel Orchestra ha messo in pratica la sua filosofia, che è tipica del jazz, di cercare uno scambio di esperienze, trovando collaborazioni prestigiose con musicisti del calibro di Keith Tippett, Julie Tippetts, Mike e Kate Westbrook. Non solo. È riuscita a convincere un altro “isolano”, lo scrittore Jonathan Coe, a riscoprirsi musicista nell’album Musiche di Jonathan Coe, pubblicato lo scorso anno come allegato a “Musica Jazz” e prossimo a uscire anche sul mercato inglese. 

«Coe aveva cominciato come musicista», rivela Faraò. «Si è mostrato favorevole al nostro progetto e ci ha aperto i suoi archivi. Gran parte dei brani scelti e arrangiati sono tratti da due raccolte pubblicate dall’autore nel 2015 sulle piattaforme Bandcamp e Spotify, intitolate Unnecessary Music e Invisible Music. Si è poi unito a noi, suonando le tastiere e la chitarra». E, al termine dell’ultimo concerto, al festival jazz di Torino, dietro le quinte, ha abbracciato il direttore Ferdinando Faraò per averlo ospitato in questo arcipelago meraviglioso.

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