Interviste

I due mondi di Antonio Artese

Il pianista di Termoli getta un ponte tra la musica classica e il jazz, fra Italia e Stati Uniti, dove è nato il suo nuovo disco “Two Worlds”. «Due mondi che fanno parte del mio percorso musicale». Nell’album anche spunti operistici. «Qui in America c’è più rispetto per la musica e per i musicisti»
La copertina dell’album “Two Worlds”

Allora il Molise è vero che esiste! È la prima scoperta quando si ascolta Two Worlds, il nuovo album di Antonio Artese, pianista di Termoli, con il suo trio. La seconda è il disco stesso: la musica è distillata con vigorosa eleganza, ardite concezioni armoniche puntellano una nuova e seducente coesione artistica ed un linguaggio espressivo di un’intensità e di una eleganza senza pari. Un trio delle meraviglie.

Sulla copertina dell’album due paesaggi che si oppongono indicano il dualismo che è il tema del lavoro sin dal titolo. L’incontro fra due mondi, quello classico e il jazz, due generi apparentemente agli antipodi, come dimostra il pianista molisano. «Due mondi che fanno parte del mio percorso musicale», racconta. «Io ho una formazione classica severa: conservatorio, dottorato in America. Da ragazzo, però, avevo una grande passione per il jazz, le armonie, mi piaceva la libertà di creare al momento, al di là degli stili, la possibilità di sperimentare. All’epoca c’era difficoltà ad accettare chi suonava ad orecchio, perché non sapeva leggere la musica. Più tardi sarebbe stato scoperto il metodo Suzuki per violino che si basa proprio sull’orecchio. A molti pianisti classici manca la capacità d’improvvisare. In questo album, ha cercato una negoziazione fra i due mondi. Non so se sono un pianista jazz, però conosco la grammatica».

Bill Evans, non a caso, è il modello di riferimento di Antonio Artese. Il pianista americano mescolò la musica di Ravel e Debussy con il piano jazz. Il musicista italiano va oltre, dando una veste sperimentale, minimalista a Un bel dì, l’aria della Madame Butterfly di Giacomo Puccini. «È un omaggio ed è una sfida. Non è la prima volta che rivisito un’opera lirica, lo avevamo già provato durante il concerto dove è nato questo disco trattando l’aria di Carmencon Besame mucho. Sono spunti operistici in temi standard, è una formula che funziona».

La scelta del trio non è soltanto un omaggio a Bill Evans, «è voluta», sottolinea Artese. «Ritengo che sia la formula perfetta. Il pianista deve confrontarsi. La formazione del trio amplifica il ruolo del pianoforte all’interno dell’interplay ritmico con batteria e contrabbasso».

Two Worlds contiene sette composizioni originali e due arrangiamenti, Lila (ninna nanna ucraina) e la citata Un Bel Dì. È un album che s’inserisce nel solco del contemporary jazz, soffice, raffinato ed elegante, in cui, magicamente e sorprendentemente, l’incontro fra il mondo classico e quello jazz sembra confluire nel pop. 

In America c’è, soprattutto, rispetto per la musica e per chi la fa. In Italia queste piccole iniziative non ricevono neanche un centesimo di finanziamento. Quanti jazz club hanno chiuso. Eppure, come ripeto spesso, il grande rock è nato nei garage non sui palchi gestiti con i contributi del Fus

Antonio Artese
Antonio Artese

Due mondi, non solo musicali, ma anche geografici e culturali. L’Italia dove è nato e vive Antonio Artese e l’America dove ha studiato, insegnato, suonato e dove è nato l’album Two Worlds. Ed è a Los Angeles dove lo abbiamo contattato telefonicamente.

«Negli Stati Uniti ho vissuto per quattordici anni. Sono rientrato in Italia nel 2003. Ora oscillo fra i due mondi. Più di un mese e mezzo lo trascorro qui nel sud della California. Qui ho studiato, qui ho ascoltato molti artisti, tanti ensemble, qui ho avuto diverse collaborazioni. Quando sono qui, abito a Santa Barbara che è una città di 200mila abitanti ed ha due orchestre, teatri, il più antico dei quali costruito da un emigrato genovese, Giuseppe Lobero. Artisti miei amici hanno piccoli localini sempre pieni di persone. C’è, soprattutto, rispetto per la musica e per chi la fa. In Italia queste piccole iniziative non ricevono neanche un centesimo di finanziamento. Quanti jazz club hanno chiuso. Eppure, come ripeto spesso, il grande rock è nato nei garage non sui palchi gestiti con i contributi del Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo, ndr)». 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *